Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘voglia di riscatto’

Malindi 5 novembre 2010 ore 13.30 ora locale(-2 ore in Italia)

La sporcizia di Malindi fa davvero l’ eco a quella in Italia?

Cammini per Malindi e devi scansare la spazzatura accumulata ovunque. Non esiste un vero e proprio marciapiede in nessuna parte della cittadina.
Tutto viene buttato a terra da chiunque. I turisti si devono districare tra mendicanti insistenti, venditori petulanti, tenendo stretta la borsa e la macchina fotografica, schivando o facendosi schivare da un boda boda(taxi in bicicletta) che sfrecciano a velocità impensabile, per non essere investiti e il tutto va associato a fulminei sguardi a terra per fare lo slalom della spazzatura imperante ovunque.
Questa è l’immagine di Malindi al di fuori dei resorts.

Se parli con molti degli italiani residenti a Malindi ti dicono che questo posto, questo paesotto è uno schifo, sporco, in disordine e oltretutto che la corruzione è indescrivibile, che il tuo minimo diritto di cittadino straniero e pure di investitore è calpestato, dimenticato, ignorato.
Signori distinti, educati pensionati che frequentano questo strano caso assurdo, di colonizzazione massiccia italica, ti sconsigliano di investire a Malindi:
“In Kenya sì ma a Malindi mai per carità…”, “Cari miei questa è la fogna del Kenya…”, ti dicono addirittura altri, scuotendo tristemente la testa, quando dici loro che sei appena arrivato per iniziare un’attività.
Qui in effetti i peggiori italiani sono arrivati e hanno fatto di tutto, hanno portato una non-cultura, trasformando una popolazione in accattoni, corrotti, ed estortori peggiori di quelli che già avevano ed hanno in altre parti del paese.
E’ notizia di poco che hanno arrestato il sindaco di Nairobi e 3 ministri si sono dimessi per casi di corruzione.
Intanto sempre sul Daily Nation ci sono notizie di italiani ricercati e pluricondannati in Italia che grazie all’appoggio della polizia locale e di personalità importanti all’immigrazione, si godono beatamente il buen ritiro alla faccia della legge italiana sulla costa kenyota e precisamente a Malindi.
Sul link che riporta la notizia su facebook, seguono molti commenti non proprio gradevoli su quello che pensano i kenyoti di noi italiani, il commento più soft è che violentiamo i loro figli ridendo in faccia loro sul fatto che non andremo mai in galera.
Le parole che più si associano a noi  sono: mafia e pedofilia.
Diciamo che il nostro presidente in questi giorni non ci sta aiutando molto a dimostrare che ci sono altri tipi di italiani in circolazione.
Non passa giorno che non si parli di tangenti, di corruzione, di mafia ed ora l’ennesimo scandalo con escort oltretutto minorenni.

In un mio pezzo precedente, sull’arresto assurdo di mio marito per una multa, parlo di come i poliziotti qui diano per scontato che tutti i bianchi ed in particolare gli italiani siano di facile mancia, o meglio chiamarle per quello che sono: tangenti.

Il suo caso sembra non essere isolato, infatti molti altri italiani hanno raccontato quando ci hanno fermato per strada che ci erano finiti nella stessa condizione di Paolo, poi un pò la poca voglia di difendersi e la molta paura di stare in gattabuia, ha fatto sì che allungando una mancia se la siano scampata.
Eccolo lì il nostro buon costume, la nostra cultura.
Parli poi con altri italiani e ti dicono che non ci si può fare nulla, la corruzione c’è, il malcostume pure ma è così e non è perché arrivi tu che allora puoi cambiare le cose!!
E’ come in Italia, lo vediamo in questi giorni, oramai è una fogna a cielo aperto di nefandezze, scandali e scandaletti. Ma oramai sono tutti rassegnati, non ci si può fare nulla.
Ed eccoci anche qui a farci fregare con la nostra solita mentalità lassista, depressa: Non puoi cambiare le cose.
Ah no?
Non posso farlo al mio paese e quindi nemmeno qui?
Cioè io arrivo in un luogo che una volta era gradevole, si stava bene e stavano bene in tanti, così ci dicono i nostri amici inglesi e tedeschi e scopro che è diventata addirittura una fogna grazie anche e soprattutto al peggior genere italico in abbinamento a quello kenyota e non posso fare nulla?
Quasi, quasi li innervosisco perché me ne lamento e non solo, addirittura mi indigno, perché credo nei diritti e credo nella possibilità di farli rispettare.
No, non posso cambiare nulla, solo perché noto che c’è qualcosa che non mi piace.
Allora io mi dico ma se per ipotesi sto vivendo in un posto che sarebbe bellissimo ma invece è sporco e fa schifo e che è addirittura una fogna, posso provare a ripulirlo, no? Magari se ci si mette in tanti, forse viene pulito anche prima…e se, mentre io da sola o  con pochi altri stiamo lì a pulire , arrivano altri a sporcare ci si può ribellare li si può anche…udite udite: fermare!!

Non ci si deve limitare a dire :”evvabeh che ci posso fare, loro sporcano e allora io non pulisco, mi turo il naso e chiudo gli occhi e va bene così!”

No, non sta scritto da nessuna parte che mi debba turare il naso, e non sta scritto da nessuna parte che loro siano  sempre i più forti.
Questo non dovrebbe accadere nel nostro paese ma nemmeno qui.

E se invece scopro che dove sono venuta a vivere, che gli zozzoni sono molti di più di quelli puliti e anche quelli puliti non ne vogliono sapere di riunirsi e ribellarsi, allora posso anche scegliere di andarmene in un posto migliore e più pulito, dove si faccia rispettare la buona regola della pulizia, non solo fisica ma anche quella della legge e questo per buona pace di quelli che pensano che sono una “rompi-equilibri-quasi-perfetti”.
E in effetti gente che la pensa come me ce n’è tanta a partire dall’Italia…avete letto di quanti giovani italiani da anni se ne stanno andando dal loro, dal nostro paese?
Li vedete quelli della passata generazione come sono arrendevoli?
Deve essere generazionale, infatti anche qui li vedo!
La gente che sta a Malindi, pensa che se non ci sono riusciti loro in 40anni a cambiare le cose, passando il tempo a lamentarsi senza che le cose cambiassero, come posso pensare io di rivoluzionare questo loro piccolo mondo?
Meglio continuare a lamentarsi allegramente, rassegnati a dover offrire “una soda” (ndr che in gergo significa 1000-1500 scellini/10-15€) al poliziotto che ti ferma per una stupidata, piuttosto che passare la giornata tra polizia e corte per pagare una multa di 500 scellini(5 €).
Così poi almeno avranno da che raccontare al bar sull’ennesimo sopruso subito e così crogiolarsi nelle proprie disgrazie.
Meglio sbuffare nel veder passare un nostro concittadino che si sa benissimo essere pedofilo e far finta di nulla.
Meglio non andare a lamentarsi dal sindaco sulla sporcizia delle strade nonostante si paghino le tasse.
Meglio non riunirsi con altri concittadini e decidere di fare associazioni vere di residenti all’estero, che servono davvero per combattere i nostri concittadini criminali, isolarli e semmai denunciarli e aiutare quelli seri ed onesti.
Meglio non riunirsi e cercare una strategia comune per rompere le scatole al nostro governo estero, affinché non si dimentichi di noi qui, che siamo il 5° paese che aiuta il Kenya con finanziamenti e non solo ma che veniamo trattati peggio che se fosse l’ultima delle zecche succhia-sangue.
Salvo poi che i nostri criminali vengono coperti ed aiutati perché corrompono, mentre noi vorremmo invece sbatterli in galera nel nostro paese.
Meglio continuare quindi a riunirsi al bar a lamentarsi senza mai fare nulla.

Questo in Italia contro un governo che non governa e che manda allo sbando un paese e i nostri giovani e qui in Kenya, a Malindi dove la brava gente è isolata e nascosta nelle case e i delinquenti vanno in giro liberamente.
Meglio tenersi le cose così come stanno piuttosto che cambiarle.

Sapete cosa c’è…che se ci tenete così tanto a tenervi un’Italia così e una “little Italy” in Malindi così, sporche letteralmente e non solo fisicamente parlando e piene di delinquenti che camminano alla luce del sole, bene, ve le potete tenere.
Voi continuate le vostre vite a lamentarvi e a non fare nulla che altri se la andranno a cercare e creare diversamente altrove.

Read Full Post »

Malindi 29 agosto 2010

Questi ultimi mesi sono passati così velocemente ed intensamente che a volte mi chiedo se vivo qui da sempre.
Mi fa ritornare alla realtà il fatto che ho i miei amici storici lontani, che non li sento spesso come prima e che soprattutto non organizzo cene e grigliate da noi con tutti loro.
Mi mancano nei pochi momenti vuoti che ho, dove cerco di godermi la pace e la quiete mi accorgo che mi mancano. Ma è stata una scelta la mia, la nostra, quella di sorvolare un continente, abbandonare la nostra terra e abbracciare una nuova vita e calpestare una terra diversa. Una nuova avventura. Sapevamo i rischi e più o meno abbiamo calcolato le pecche che per ora tolleriamo, certo è che quando vuoi bene a qualcuno fai fatica ad abituarti alla loro mancanza e questa è la pecca peggiore, sembra a volte una punizione.
Ma la vita è strana e bella anche per quello che ti può togliere, e sto capendo da tempo che a volte toglie, perché poi deve dare qualcosa che ancora non si sa e non si immagina ma qualcosa arriva, sempre anche un insegnamento che vale molto di più del tolto..
L’ho imparato presto e da tempo lo so e di questa consapevolezza, quando ero piccola me ne facevo a volte un cruccio, a volte una speranza.
Quando mio padre è morto all’improvviso e siamo finite, mia madre ed io nel tipico precipizio economico con poche speranze per una donna di 50anni senza lavoro e senza un solo risparmio, con una bambina di 9 anni, ho imparato che ci sono persone che inaspettatamente ti aiutano anche con poco, per loro ma che in realtà è tanto per te.
Quanti pomeriggi ho passato, ospite delle mie compagne di classe, che prima che io diventassi il caso umano della scuola, nemmeno mi calcolavano? Tante di loro, lo sapevo, avrebbero preferito altre compagne di giochi ma alla fine è nata un’amicizia, anche se forzatamente prima e anche se poi durante la crescita ci siamo perse, dopo con piacere ci siamo ritrovate e riscelte e ora siamo legate da un bel legame che è ancora più prezioso.
Quante cene calde ho avuto prima di affrontare ore di viaggio per tornare in una casa che era troppo lontana dalla città e dalla scuola ma che era l’unica che avevamo avuto gratis da amici. A loro sembrava di fare poco dandoci una ex-portineria per casa ma per noi alla fine era tantissimo e per le mamme delle mie amiche era quasi nulla darmi da mangiare, in realtà era enorme l’aiuto che stavano dando a me e a mia madre.
Quando ci stavamo risollevando, poco dopo il lutto e il dissesto economico, abbiamo perso tutto nuovamente, per colpa di un incendio doloso del nostro vicino e siamo finite a vivere in una topaia di albergo. Era pur sempre un appoggio, il quale ci ha permesso di avere una stanza calda e un bagno e lì in quei momenti ho anche imparato che i vestiti che avevo donato io, attraverso la scuola anni prima ai poveri, con un gesto banale e neppure consapevole, ora, attraverso lo stesso gesto di altre persone come me in precedenza, era indispensabile per aiutare me e a mia madre per coprirci da un inverno pesante e dall’impossibilità di comprarci qualcosa.
Ancora tempo dopo, quando da quella casa oramai inagibile per l’incendio, siamo finite a vivere a Milano in una casa a ringhiera, dentro una soffitta per casa, non era coibentata e per le molte perdite nel tetto, ci faceva morire di caldo d’estate e di freddo ed umidità di inverno. Ma ho imparato che ero, nonostante questi problemi, molto fortunata. Intanto non ero più così distante dalle mie amiche e da scuola e nonostante i difetti della casa, valendo questa poco, costava anche poco, quindi mia madre poteva pagare l’affitto e questo era già tanto per me. Grazie anche a questa soffitta ho imparato, dipingendola, sistemandola e riadattandola, facendola diventare quasi una vera casa ad usare le mani e la creatività soprattutto di tipo economico e che ora tanto ringrazio!
Quando solo poco tempo dopo, un nostro vicino di casa che soffriva da tempo di disturbi mentali, ha cercato di uccidermi, tentando di accoltellarmi prima e di gettarmi poi dal primo piano della casa a ringhiera nella quale vivevamo, ho imparato che la mia voglia di vivere era più forte della mia depressione e che la mia forza di sopravvivenza era più energica di un uomo 3 volte più grande di me con tanta voglia di spaccare il mondo e le persone. E l’ ho imparato ed ho avuto conferma che ci sono persone splendide che non hanno esitato un attimo per salvarmi, poliziotti e vicini di casa, persone semplici che senza pensare troppo alla loro incolumità mi hanno strappato a morte certa.
Ritornando al primo episodio nella mia vita, la morte di mio padre che ha rotto un falso perfetto equilibrio di una bambina di soli 9 anni in una famiglia apparentemente normale, mi ha insegnato tanto e posso dire in positivo. Tornando infatti a quel momento, posso dire che mio padre è morto all’improvviso per noi ma in verità non per colpa di una malattia scoperta improvvisamente o per un incidente ma perché all’improvviso ha deciso di palesare un suo malessere che nessuno vedeva o voleva vedere da anni, forse decenni, decenni di solitudine. Ha preso la pistola di suo padre, ha cercato un posto isolato sotto un ponte vicino a casa e ha deciso di portarsela alla tempia e sparare un colpo.
Ci ha lasciati così, con un vuoto lacerante, molti dubbi, inutili innumerevoli domande senza risposte e un troppo sintetico biglietto con spiegazioni troppo semplici per accettare una morte di un essere vivente, di un sensibile uomo, di un dolce padre.
Mio padre era morto dentro da tempo ma nessuno se ne era accorto, viveva una vita non sua con una forza che non era forza propulsiva ma solo di inerzia.
Dopo la sua morte e per la sua morte la mia vita è stata una continua lotta, dove le discese sono state rapide e dolorose e le salite lente e altrettanto dolorose ma ora ho imparato che quando arrivo in cima è perché l’ho voluto io e solo io. Ho imparato che non importa che lavoro si faccia, che compiti si svolgano, ho imparato a sopravvivere a tante situazioni pesanti e spesso anche tutte contemporaneamente. Ho imparato quanto una vita sia importante ma soprattutto che “Come si vive una vita”, ha un’importanza enorme. Ho imparato tanto dalla mia vita, per questo non voglio smettere di farlo, non voglio fermarmi davanti a nulla, non voglio avere paura di niente e soprattutto non voglio smettere di pensare che qualcosa sia impossibile da raggiungere. Io ne ho avuto dimostrazione, anche ora mentre ho affrontato mille problemi per costruire un primo pezzo di un orfanotrofio in kenya, fra mille problemi, ostacoli, e impedimenti ce la sto facendo.
Mi ha tolto tanta energia farlo ma mi ha regalato tanta esperienza e soprattutto mi ha regalato persone splendide che si sono dannate per dare un aiuto a me e a i bambini. E’ stata dura ma alla fine mi ha dato il regalo più bello, scoprire l’umanità di certe persone.
La vita toglie, perché deve dare qualcos’altro. A me ha tolto tanto ma ho avuto tantissimo indietro ed ogni giorno lo scopro con piacere, gioia e commozione.
Non ho rimpianti, ma un solo rimorso : che mio padre non sia qui a vedere come io sia diventata nel bene e nel male e come sia bella la vita nel bene e nel male ma senza il suo gesto, forse io non sarei qui. Quindi ringrazio la vita, perché ho imparato e sto imparando ma dico anche: Grazie Papà.

Read Full Post »

Malindi 15 luglio 2010 ore 21. 47 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)
Emmanuel solo 10 anni
Emmanuel ha  10 anni, è magrolino ma dinamico e forte. Ama fare karaté come suo papà. Ha il mito di Bruce Lee e con l’aiuto di Paolo, mio marito, sta imparando a far roteare un bastoncino di bambù come si fa con i “nunchaku” e qualche nozione base di difesa personale. Mentre si allena è molto fiero di sé, concentrato e serio con lo sguardo fisso verso Paolo, mentre svolge i movimenti lenti.
A prima vista in mezzo ai tanti non lo noti, 35 bambini sono tanti, ancora dopo 4 anni e passa, di frequentazione con questo gruppo allegro e chiassoso, facciamo fatica a ricordarci i nomi di tutti.
In passato qualche notizia su qualcuno di loro la abbiamo ricevuta da Christopher ma  in mezzo a tante tristi storie, la similitudine di destino di molti di loro, te li fa confondere : “la mamma è morta, non ha il padre”, “era malato è morto”, “aveva l’aids”, “beveva”, ”era una prostituta”, “la nonna è troppo vecchia per occuparsene”, “è finito in carcere il suo unico genitore e non ha nessuno a casa che si occupi di lui”, insomma in questo desolato elenco si faceva fatica a ricordarsi il passato di tutti.
Ma in questi giorni mi sto mettendo a fianco uno di loro a turno per scrivere qualcosa su le loro vite e sto imparando a conoscerli meglio. Allora a fatica con alcuni di questi, iniziamo scrivendo la loro età, cosa amano studiare, il loro piatto preferito, come vanno a scuola, cosa vorrebbero fare da grandi, quanto tempo fa sono arrivati al Leamwana.
Piano, piano ci avviciniamo ai ricordi, al momento di quando si sono separati dalle famiglie. “Cosa provavi?” Qualcuno si ricorda, qualcuno no, qualcuno dice che era felice da subito, qualcuno invece dice che è felice ora, sottintende che all’epoca non lo era, mi chiedo io?
Con molti bisogna ripetere con calma e dolcezza le domande più volte, ancora dopo 4 anni che ci conoscono e molti mesi che li frequentiamo assiduamente, si vergognano, un po’ per carattere e un po’ per educazione, sono poco abituati a parlare di sé e soprattutto credo con un muzungu(bianco).
Invece con pochi altri ma soprattutto con Emmanuel, semmai si ha la situazione opposta.
Lui è un fiume in piena, parla, si spiega, ricorda. Che piacere, pensavo ieri, mentre parlava con emozione e con la voce carica di dolcezza di come si ricordava di sua madre e di come lo amasse molto. Mi ha raccontato un pezzo della sua vita, dei suoi ricordi. Di sua madre e di suo padre, fiero, mi spiega che lavorava per la compagnia dell’elettricità ma che ora non lavora più. “Non si può occupare più di me e anche mia nonna è troppo anziana!”. Semplice e diretto spiega che quindi è arrivato qui ma si è subito trovato bene, perché mangia regolarmente e dorme in un letto anche se lo deve dividere con un altro bambino ma soprattutto e ci tiene a sottolinearmelo, qui gli danno la possibilità di studiare come amava fare suo padre e lui vuole studiare tanto per diventare un soldato.
Mamma mia, penso io, spero proprio di no! Provo a chiedergli “come mai pensi a questo lavoro, per le armi forse?Ti piace giocare  alla guerra?” “No, assolutamente ma io voglio servire il mondo se ce ne fosse bisogno!”.
Il tempo di tornare a casa è arrivato allora lo ringrazio e gli dico che continueremo domani. Lui è felice, perché a potuto dirmi tante cose e me lo dice pure.
Oggi quindi quando sono arrivata e mi sono seduta iniziando a scrivere con una delle bambine e a rispondere con dei bambini a qualche mail dei loro sponsor tra i miei amici, vedevo che mi ronzava intorno e spesso mi faceva domande o mi correggeva mentre scrivevo. Così dopo aver finito alcune cose e visto che rimaneva ancora vicino a me abbiamo ricominciato a parlare. Siamo partiti da Paolo, mi ha chiesto “dove va tutti i pomeriggi?” e così gli ho spiegato che lui non è stato fortunato quando era più piccolo e non ha potuto studiare le lingue e quindi ora gli tocca imparare con più fatica. Così lui mi dice che sa di essere fortunato perché al Leamwana può studiare cosa che a casa non gli sarebbe stato possibile fare.
“Sai Emmanuel è molto bello quello che dici, hai avuto una vita un po’ difficile, è vero ma i problemi possono essere occasioni per capire delle cose della vita e anche se hai vissuto cose brutte ce ne sono altre per le quali puoi considerarti comunque fortunato!”. “Sì ringrazio Dio” mi dice e da quel pensiero, come un fiume in piena mi ha raccontato i tasselli sulla sua vita che mi mancavano.
Prima che morisse sua mamma avevano una bella casetta, anche se di fango e pietre e mangiavano bene ma i vicini gelosi li hanno denunciati alla polizia raccontando bugie e cose brutte su di loro. Si ricorda che sono arrivati i poliziotti e gliel’ hanno distrutta, buttandola giù. Suo fratello ha cercato di impedire lo scempio, il padre non c’ era, così lui e sua mamma sono dovuti scappare nella foresta, mentre suo fratello è fuggito lontano. Quando, finalmente il padre li ha ritrovati li ha fatti rimanere nascosti anche se non ha mai saputo perché e così lui ha perso diversi mesi di scuola.
Molto probabilmente l’intervento della polizia era stato scatenato da lotte di pulizia etnica tra tribù, le quali spesso sono successe e forse ancora accadono in certe parti del paese, senza che nessuno lo sappia.
Dopo che si erano nuovamente riuniti, non era ancora momento di stare tranquilli, il fratello, il quale era tornato dopo molto tempo, probabilmente dopo molti mesi, avendo frequentato brutte compagnie, “si era trasformato in un diavolo”. Così dice lui spalancando gli occhi, “era drogato?” gli chiedo io e lui annuisce. In un altro soffio mi dice che suo fratello ha cercato di ucciderlo e che lui se lo ricorda molto bene mentre è stato salvato dalla madre e solo per fortuna. Il padre tornato a casa e scoperta la malefatta ha cacciato quindi l’altro suo figlio, il fratello Caino.
Sembrerebbe già tanto per un bambino ma si vede che la vita anche per lui ha deciso di accanirsi. Sopo poco, una caduta massi da una collina travolge delle persone, tra le quali c’e anche sua madre, dopo una lunga malattia, forse un coma, gli viene così portata via l’amata mamma.
Il padre rimasto solo, con un lavoro che lo porta spesso lontano e senza poterlo affidare a nessuno, decide di trasferirsi dalla nonna . Il destino non è ancora soddisfatto abbastanza e così poco dopo, un incidente sul lavoro rende il padre di Emmanuel invalido tanto che è destinato ad usare le stampelle a vita. Così è stato deciso, per il bene del bambino di portarlo al LeaMwana per essere accudito e seguito con cura, dove i pasti sono garantiti, la scuola privata è una realtà e la vita per lui si auspica migliore che se fosse rimasto a vivere a casa con il padre oramai senza lavoro e senza soldi.
A questo punto del racconto, il suo respiro si era fatto corto e il petto si alzava e abbassava velocemente, i suoi occhi hanno cominciato a riempirsi di lacrime e a quel punto me lo sono tirato vicino e l’ho abbracciato forte. L’ho coccolato come si fa con i bambini piccoli e l’ho cullato e gli ho detto che poteva piangere e liberarsi. Così è stato.
Poi gli ho sussurrato che è fortunato, perché sarà un uomo forte e buono e potrà aiutare gli altri, perché sa cosa sia la dura vita ma sa anche che ha avuto la fortuna di incontrare persone che si occuperanno di lui e che gli vogliono bene.
Emmanuel ha solo 10 anni e una vita dura ed intensa alle spalle.
Ma per esperienza diretta so per certo che ce la farà.

Read Full Post »

Kim ha 11 anni e frequenta la 5°. È stato affidato alle cure del Lea Mwana per i gravi problemi di denaro in cui versava la mamma, che non le consentivano di provvedere al suo sostentamento. Ha solo lei ed in un anno è riuscita a vederla solo una volta a causa della grande distanza. A Kim piace stare al Lea Mwana, perché si rende conto che qui può studiare in maniera adeguata: le sue materie preferite ? Scienze e matematica. Gli piace studiare molto perché animato da un senso di patriottismo nei confronti della sua terra. Parla molto bene e conosce approfonditamente la storia della sua nazione; è molto sveglio e spero (commento personale) che possa diventare un maestro.
I suoi cibi preferiti sono ugali (per l’energia), pesce (per la struttura corporea) e banane (perché protettive). I commenti tra parentesi sono le motivazioni da lui stesso date. Gli piace il ballo doping-dancing stile Michael Jackson.

Read Full Post »

Malindi 9 luglio 2010 ore 14.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Vacanza estate 2004 USA

uno dei momenti in cui ho capito che la mia vita era un'altra

Qualche amico e molte nuove conoscenze in Italia e qui in Kenya, mi chiedono come mai ho “buttato” tutto alle spalle, perché ho scelto questo percorso che pare così duro, diverso e lontano da quello che sono, o meglio dico io, da quello che ero.
Cosa, chi e perché mi ha fatto intraprendere questa strada?
Difficile riassumere tutte le motivazioni e le sensazioni, in un’unica ragione ed impossibile spiegarlo brevemente senza essere a volte fraintese.
Posso iniziare con il dire che ho avuto una vita intensa, fatta da mille cadute e risalite. La mia vita non è stata lineare, semplice, né scontata. Forse per questo, cambiare vita non mi è sembrato più difficile che nel passato, anzi forse questa volta, perché ho deciso da me il cambio di rotta è stata l’unica volta piacevole.
Una delle spinte che mi ha fatto pensare anni fa che la vita che stavo vivendo non mi apparteneva, era la sensazione che mi era stata cucita addosso male come un vestito che non ti valorizza. Come una fotografia che rispunta da un cassetto degli anni passati, quando ti rivedi con improbabili acconciature ed immettibili vestiti e ti chiedi come facessi a conciarti così!
Uguale, mi guardavo allo specchio e mi sentivo fuori posto, o meglio non con i vestiti a posto. Il senso di soffocamento era continuo, costante e davo la colpa all’ansia, alla tiroide, allo stress, ai problemi, all’uomo sbagliato, al capo isterico ma mai pensavo che la mia vita in blocco ne fosse la causa.
Ho iniziato a lavorare giovanissima parallelamente all’università di giurisprudenza, ottima formazione per due anni, infarinatura perfetta per il mio futuro ma decisi di abbandonare presto quell’indirizzo che non era specifico, né così prezioso per il mio lavoro dell’epoca. Continuando a lavorare mi specializzai in comunicazione e marketing e la mia carriera velocemente progrediva tanto quanto cambiavo i lavori e le aziende. Due anni in un’azienda, poi un anno e mezzo in un’altra e così via. Non mi risparmiavo mai, arrivavo sempre per tappare un’emergenza o iniziare un progetto impegnativo, un lancio di una campagna, un marchio da rilanciare, una testata da promuovere sul mercato. Sempre nelle nicchie di mercato, mai grandi nomi o altisonanti a parte due casi ma ho sempre preferito le medie aziende. Lì era dove si imparava di più, dove potevi vedere molti più tasselli delle società e parlare e lavorare gomito a gomito dalla centralinista all’amministratore delegato. Vedere i bilanci, studiare i budget, capire fino in fondo come muoversi nelle varie caselle e nelle strategie delle società. Avevo fame e sete di imparare, di crescere e conoscere sempre di più e di più. Non mi bastava mai. Non mi fermavo mai. Dodici, anche quattordici ore al giorno senza una sosta, sette giorni su sette e chi tra i miei amici legge questo post lo può confermare, a volte sparivo per un mese intero non rispondevo nemmeno al telefono. Sono arrivata da agente e consulente a seguire contemporaneamente 3 società quasi come se fossi un dipendente full time per tutte e tre.
La mattina le mie mail partivano alle 4.30 massimo alle 5 e chi ha lavorato con me, leggendo queste righe, sorriderà, perché arrivavo alle 8.30 in ufficio, dopo che ero già passata per tipografie e stampatori, a controllare i lavori eseguiti durante la notte e chiedevo ai colleghi se avevano letto la mia mail con i punti del giorno. Spesso mi rispondevano bofonchiando che erano appena arrivati, molto altre volte appena uscivo dall’ufficio captavo i “benevolenti” auguri di buona giornata…ero terribile. Con i colleghi sempre esigente ma anche con capi. Se infatti, come spesso accade nelle società, riscontravo angherie, scorrettezze non tardavo a farlo presente a scontrarmi anche con i “mega-capi”, famose le mie sfuriate con gli AD difronte a straordinari o bonus promessi e non riconosciuti a colleghi che si erano ammazzati di lavoro.
Insomma non stavo zitta, mi ribellavo se sentivo che potevo provarci o al massimo, cercavo altro se mi stufavano le lotte sterili e me ne andavo da un’altra parte finito quello che mi interessava finire e imparare e chiudevo i capitoli senza star tanto a spiegare.
Soprannominata Bulldog, perché non mollavo la presa mai ma forse anche, perché appunto, rompevo come un cagnaccio di razza bulldog di quelli che ti tampinano sempre abbaiando e spingendoti ai calcagni, finché non vai dove ti dicono loro. Infatti a me stanno simpaticissimi.
Non guardavo ad interessi da così detti ”paraculi” per mantenermi un posto e fare carriera in quel senso, non erano i soldi che mi interessavano ma era crescere. Volevo salire, arrivare sulla vetta, vedere che c’era lassù. Mi ponevo obbiettivi a volte anche rigidissimi, li raggiungevo puntualmente e puntualmente ne riscrivevo di nuovi: entro 25 libera professionista, entro 28 società propria, entro 30 ingrandire e aprire attività etc etc …
Scalare, scalare, con una resistenza che a guardarmi ora mi chiedo come facessi. Ma una volta durante la scalata però mi sono domandata “e se quello che vedrò lassù non fosse abbastanza?”, quello è stato il primo errore. Ho cominciato a dubitare.
Ero giovane sì, avevo amici, avevo una discreta indipendenza economica da quando avevo 20 anni che mi permetteva di vivere e mantenermi egregiamente da sola, permettermi vacanze anche costose, quando riuscivo a ritagliarmi due settimane in agosto, la macchina, gli ammennicoli tecnologici vari, le cene fuori, i bei vestiti, l’aiuto in casa e riuscivo anche ad aiutare mia mamma. Insomma per una ragazza sotto i trent’anni che si era fatta da sola e che viveva a Milano non era poi così male. Non potevo lamentarmi soprattutto se vedevo da dove arrivavo, soprattutto se guardavo i miei coetanei, ancora in casa, ancora studenti, ancora lì nel limbo della vita…. Nonostante ciò non ero felice.

Se ritornavo con la mente a prima del mio primo impiego, ripensavo come mi piaceva leggere e scrivere e soprattutto parlare con la gente, sentire le loro storie, e raccontarle ad altri. Ero curiosa e mi sarebbe piaciuto girare un po’ il mondo per vedere cose e gente diversa.

Poi mi piacevano i bambini, mi interessava però aiutare quelli con difficoltà e soprattutto quelli che come me avevano avuto un passato difficile, di quelli che ci si chiede se potranno risalire mai la china.
Quando si cade in basso è difficile rialzarsi ma se a cadere in basso è un bambino e non ha a fianco persone e mezzi che lo aiutino può essere impossibile farcela.

Io ce l’avevo fatta, ce la stavo facendo e mi sarebbe piaciuto tanto aiutare alcuni di loro. Quindi nei ritagli minimi di tempo che avevo, aiutavo dei ragazzini di una comunità ma gli scampoli di ore a disposizione erano davvero sfilacciati e se ripenso che avrei tanto voluto lavorare nell’assistenza sociale…era frustrante vedere cosa stavo invece facendo.
Lavoravo con i media di rilievo, molti si stimavano per questo, per le mega riunioni nei palazzoni, con i top manager ma io non li vedevo così importanti, né i palazzi, né le persone, né i loro ruoli e sentivo soprattutto che vendevo o compravo, dipendeva da che parte della scrivania sedevo, un prodotto che non era ancora finito, era aria fritta, erano spazi vuoti.
A ripensarci ero più soddisfatta quando ad undici anni vendevo il pane e le pizze dietro al banco con mia madre. Non mi sentivo all’epoca gratificata di vederci entrambe alle 5 del mattino a lavorare in una panetteria ma ero poi soddisfatta quando la gente ci diceva che il nostro pane era buono e le nostre pizze erano speciali. Ecco sentirsi più soddisfatti di vendere michette e pizze, piuttosto che fare media plan con le più grandi testate e concessionarie pubblicitarie può forse rendere l’idea di che strani pensieri e sensazioni mi entrassero nella pelle.

Ho cominciato a sminuire il lavoro molto ambito da tanti. Questo è stato il secondo grave errore.
Lavorando così tanto non avevo, né il tempo, né la forza per leggere e scrivere, nemmeno le lettere agli amici lontani, o il diario che per anni avevo tenuto e che spesso fungeva da specchio nei momenti di tentennamenti. Non avevo il tempo per stare con i miei gatti, non avevo il tempo di guardare il cielo, di respirare l’aria dell’alba delle domeniche deserte di Milano, non avevo il tempo di stare con le amiche, non avevo il tempo di filosofeggiare, di stare in silenzio seduta a guardare nel vuoto e riflettere sul mondo, non avevo il tempo di cucinare, seguire la mia passione, preparare i dolci, viziare gli amici e me stessa. Lavoravo e basta.
Ero diventata una macchina da lavoro. Con qualche soldo in più in tasca, tante preoccupazioni, molte responsabilità e nessuna libertà di essere davvero quello che forse avrei voluto essere.

Non libera di spegnere il cellulare, perché dovevi essere sempre reperibile, non libera di prendersi un fine settimana men che meno lungo, non libera di dire “no,grazie” ad una cena di lavoro, o alla riunione del venerdì pomeriggio alle 18.
Ho iniziato a desiderare di essere libera davvero e questo è stato il mio fatale e decisivo errore che aggiunto ai primi due hanno portato la mia vita di allora a stravolgersi.

All’epoca non lo sapevo ancora ma tutto quello che ho fatto, scelto e azionato negli anni a venire mi ha portato a tutto quello che sto facendo ora,  non ne ero consapevole ma stavo cambiando, di nuovo, la mia vita.
Meglio dire la rotta della mia vita. Perché la vita è una ma le rotte, i mari e le terre che si possono tracciare, solcare e visitare possono essere innumerevoli.
Questo lo sto capendo, che se studi per diventare avvocato non devi necessariamente morire avvocato, se studi per architetto non devi farlo fino alla fine della tua vita. Se ti lanci a fare il carrierista puoi anche fermarti bruscamente e cercare quello che ti rende più libero e felice.
Spesso però è questo che non impariamo in tutta la nostra vita, ovvero a comprendere davvero cosa ci renda felici.
Studiamo come matti, ci impostano come bravi e perfetti scolari, che non devono contestare, dissentire e soprattutto dubitare mai. La strada è quella, loro te la indicano con un dito ed un braccio teso e tu pian piano come tanti altri a fianco a te, tendi il tuo di braccio in quella direzione e pensi che sia l’unica direzione. Perché tutti puntano verso quella unica via.
L’unica strada, l’unica vita.
Invece se pensassimo che di vite intorno ce ne sono mille, come mille sono le stelle, e che mille ne potremmo vedere e provare a scegliere se solo ci avessero insegnato a contestare, dissentire e soprattutto dubitare!!
Mi ricordo che quando ero piccola, dissentivo su tutto, domandavo sempre il perché per ogni cosa. Torturavo mio papà con i perché e i come, lui mi sembrava pazientemente rassegnato a farmi vedere dei lati delle cose non mi dava mai spiegazioni decisive e tagliate di netto e questo, credo, mi abbia aiutato molto nel mio spirito critico. Non mi dava risposte preconfezionate.
Come quando per la scuola dovevo disegnare in scala il duomo di Milano e lo tormentavo con i dettagli di precisione, perché a scuola mi dicevano che dovevamo essere il più precisi possibile. Invece lui, che era un artista, più che di mestiere come tanti se ne trovano, proprio per vocazione mi disse che la precisione stava nella mia interpretazione di come lo vedevo IO il duomo!
Mi insegnò che non era indispensabile disegnarlo precisamente ma darne l’impressione che IO provavo guardandolo. Fu il mio primo successo.
Non mi ricordo a dir la verità cosa mi dissero a scuola, perché ben presto mi accorsi che della loro opinione non mi interessava granché ma lo sentii come un successo personale. Il “mio duomo” lo vedevo bellissimo con le sue vetrate stupende, che credo di aver messo sul fronte e non sul retro, perché disegnandolo dal davanti ma piacendomi molto le vetrate sul retro decisi che dovevano essere posizionate in modo differente. Non mi ricordo molte cose di mio padre ma anche se poche devo dire che forse mi hanno segnato nel carattere molto di più di quanto avessi immaginato in passato.
Una delle rotte della mia vita iniziò da lì da quel periodo felice poco prima di incontrare diverse tempeste.
Un’altra rotta è iniziata ora, avendo attraversato molti altri mari in burrasca e mi sa che tanti altri ne affronterò ma basta sapere di poterli solcare con la mia barca, che se mai l’avrò si chiamerà “libera e ribelle”, come ero nata io e come sto cercando di tornare ad essere totalmente.

Read Full Post »

bavaglio chic

PROTESTA CONTRO LA DEMOCRAZIA E LA LIBERTA'

Mi chiamo Gaia, ho 34 anni, un marito, due cani, due gatti e una nuova vita all’estero e tanta voglia di democrazia.
Ho una proposta da fare, per aumentare la protesta in maniera simbolica ma di forte impatto, contro la così detta “legge Bavaglio”, aggiungere qualcosa di semplice ma più visibile, soprattutto di più costante,delle foto inviate alle redazioni dei giornali e su facebook e delle poche, a mio parere, manifestazioni di protesta.
L’idea mi è venuta proprio guardando le foto di queste manifestazioni.
Aggiungere un simbolo, nel quotidiano di tutti noi, giovani e non, in Italia e anche all’estero, come se fosse l’oggetto di moda, l’”IPhone italiano, l’accessorio indispensabile:
mentre siamo al lavoro, fuori con gli amici, nei ristoranti e nei bar, nelle università, negli ospedali, nelle banche(!), mentre andiamo in giro a piedi, in bicicletta e anche se ci andiamo in macchina per raggiungere tutti questi posti e molti altri di più, su i mezzi pubblici sempre ed ovunque metterci sulla faccia un vero e proprio Bavaglio!
Non limitandoci a metterlo, solo nelle sparute o spero più numerose manifestazioni!

Se dici bavaglio pensi a delle immagini ad uno Stile :
Alla Pistolera, alla Bandito, alla Sovversivo ma anche all’Americana, all’ Araba…
Siamo detentori della Moda?

Bene Inventiamoci “Lo Stile del Bavaglio all’Italiana” !

Mettiamoci sulla bocca, legato dietro sulla testa, coprendoci bene la bocca, mettiamoci tutti quanti un bavaglio tutti i giorni, tutto il giorno !!
Non importa il colore, non importa la grandezza, non importa la fantasia, non importa come, importa solo che lo Facciamo TUTTI e SEMPRE!

Cominceranno ad essercene sempre di più, in giro, sui mezzi pubblici, nei pubblici uffici, nei negozi, nelle aziende, nelle scuole, università e mi auguro ospedali, tribunali, ovunque!

Il coraggio è contagioso.

La gente non informata, assopita, anestetizzata da questo grande bluff si comincerà a domandare e ad informare e la gente che sa ma che non scende in piazza, perché costa “fatica sprecata”, scoprirà in un cassetto un foulard, una fazzoletto, una bandana e proverà a fare un gesto semplice che non costa nemmeno la delusione di una “fatica sprecata”.

Gli artisti potranno realizzarne opere d’interpretazione di un’epoca, e gli stilisti un nuovo costoso gadget da vendere strafirmato e strapagato magari indossandolo, si spera, prima di tutti loro!

E la nostra stampa e la “nostra” tv non potranno non filmare, non vedere, non descrivere ma soprattutto la stampa estera ci vedrà, gli stranieri in Italia ci vedranno, e spero anche all’estero ci saranno Italiani, che come me inizieranno a farsi vedere col bavaglio ovunque e così parleranno di noi.
Parleranno di un popolo che ha un bavaglio sulla bocca, sempre e non per manifestare e non per religione o per tradizione ma per mancanza di libertà, giustizia e democrazia nel proprio paese.

Il mondo intero ci vedrà e noi riusciremo con un gesto simbolico, pacifico ma molto, molto forte a dimostrare ai nostri politici che il potere ce l’abbiamo noi!
Che gli Italiani con la I maiuscola siamo NOI, quelli che hanno il bavaglio e non quelli che cercano di mettercelo!

Le cose possono cambiare, devono cambiare, non per forza con le manifestazioni che sono ancora troppo poco fastidiose per il nostro governo e quindi, senza violenza, senza scontri, senza colori, senza partiti, da destra a sinistra, dal basso all’alto della nostra società sono convinta, che ci siano tanti Italiani che non vogliono questa legge : mettiamoci un Bavaglio!

Scrivo a tutti, giornali, blogger, radio, amici, sconosciuti, per cercare di diffondere questa banale, semplice idea, questa proposta che può sembrare ridicola ma sono convinta che è arrivato il momento di unirci davvero come popolo, come filosofia di vita , come diritto di democrazia e non, e ripeto non, come un partito politico, non c’è nulla di politico in questo, c’è solo libertà dell’individuo!

Nel mio modesto blog, iniziato per aggiornare i miei amici in giro per il mondo o restati in un paese che ogni giorno di più mi indigna, scrivo e scriverò di questa mia proposta, su facebook lo inoltrerò e chiederò di farlo e spero anche voi lo facciate e si trovi una soluzione a questo scempio a questo cappio sempre più stretto, dopo il bavaglio ci sono i paraocchi, o forse ce li hanno giù messi e questo è l’atto finale!?

Spero diate spazio a questa mia “idea” o per lo meno tiriamone fuori una migliore se esiste, perché sono stufa per molti motivi ed ora anche per questo di vergognarmi di dire che sono italiana invece di esserne fiera per tutti quegli individui storici che hanno fatto della libertà e della verità il loro baluardo e ci hanno rimesso anche la vita.
Voglio sentirmi una fiera Italiana!

CONTRO LA LEGGE BAVAGLIO-GAG LOW

RINGHIO E MI RIBELLO PER IL BAVAGLIO - UNITI RIMEDIAMO ALLO SBAGLIO

Read Full Post »

Malindi 24 maggio 2010 ore 15.59 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

LeaMwana Children Center Care

LeaMwana realizzato con le balle di paglia.

Oggi qui a Malindi è una giornata fresca, un po’ grigia ma piacevole, dovrebbe essere il periodo delle piogge, dico dovrebbe, perché mi aspettavo piogge torrenziali per giorni interi e per una settimana di seguito, invece per ora ho vissuto solo improvvisi intensi acquazzoni che si alternano a pomeriggi assolati e cocenti. Nel frattempo ne gode la vegetazione che è un tripudio di decine di verdi scintillanti dai più tenui ai più intensi. I Baobab paiono avere una testa di ricci verdi, così carichi di foglie che mai avevo visto nei miei trascorsi qui. Le bouganville si allungano e si estendono ovunque con i loro rami carichi di foglie enormi e brillanti e l’erba é così fitta che ogni due giorni va tagliata.
Insomma il così tanto temuto ed orribile periodo delle piogge per ora si sta rivelando il momento migliore mai vissuto qui. Infatti in queste settimane, Malindi soprattutto si è svuotata totalmente, regalando un po’ più di calma e di silenzio a chi rimane. Certo i venditori ambulanti ed i negozianti si lamentano, qualcuno si dispera per i mancati guadagni ma i più si crogiolano al sole e si riposano aspettando i primi di luglio quando i primi turisti torneranno ad affollare, le vie e i negozi di questa caotica e chiassosa cittadina.
Approfitto quindi di una giornata un po’ più uggiosa per scrivere e aggiornare amici e parenti che mi chiedono di scrivere un po’ di più, bigiando le lezioni di inglese e kiswahili mi sono chiusa in veranda con lo sguardo sul giardino a mettere giù tutte le impressioni dolci ed amare raccolte in questi due ultimi mesi.
Come già ho scritto in un altro post, il mio cambiamento, il lento risveglio sta avvenendo, oramai ogni giorno mi sento sempre più lontana dalla marionetta che negli anni ero diventata e mi sento più libera di scoprire me stessa.
Quello che mi pareva un sogno, un film, ovvero di aiutare i bambini dell’orfanotrofio del LeaMwana sta incominciando a prendere forma.
Le adesioni per il corso per imparare a costruire una casa con le balle di paglia stanno arrivando.
Costruiremo o meglio inizieremo a costruire il nuovo orfanotrofio con la tecnica delle balle di paglia. Un metodo nuovo anche se antico che risale ai pionieri in America che sprovvisti di legname dovettero adattarsi a costruire le case con le balle di paglia, si accorsero ben presto che isolavano dal freddo e dal caldo e anche dal rumore. Man mano la tecnica si affinò e ad oggi esistono ancora case perfettamente funzionanti ed utilizzate costruite con questa tecnica nel Nevada.

Le domande saranno mille nella testa di chi legge per la prima volta di questo materiale, ma posso assicurare che le mie mille, anzi no, miliardi di domande poste hanno avuto risposte esaustive ma soprattutto hanno avuto conferme esistenti. Le case stanno in piedi per secoli, ovviamente con una buona costruzione alle spalle ed una manutenzione ordinaria(ma questo dovrebbe valere per tutte le costruzioni).
Le balle di paglia e tutti i materiali utilizzati sono naturali e non inquinanti, non deturpano irrimediabilmente la Terra, se si abbattono queste case, tutto torna alla terra, tutto é smaltibile, nulla rimane irrimediabilmente ad inquinare dopo il nostro passaggio. Le balle di paglia sono eco-friendly.
Inoltre le balle di paglia, propriamente rivestite di una mistura di calce spenta e argilla in diversi strati, rendono le case fresche d’estate, calde d’inverno e soprattutto non si annida umidità e aria malsana, quindi sono più sane delle case tradizionali e anche più economiche nella manutenzione e gestione.
Rivestite opportunamente resistono agli incendi molto più a lungo che le normali case in cemento e questo non lo dicono tanto per dire gli ingegneri e gli architetti che si occupano di case in paglia ma lo dimostrano con esperimenti e test del fuoco ufficiali, realizzati un po’ ovunque e dimostrabili con certificazioni e video.
Le case sono silenziose, l’ambiente è ovattato all’interno e già dalla prima impressione percepisci che è sano,questo dato che non si utilizzano né vernici, né sostanze chimiche e tossiche per la salute.
Se costruite su fondamenta particolari, utilizzando copertoni (gomme per auto e camion) dismesse e ghiaia, diventano anche antisismiche. Il terremoto dell’Aquila ha un esempio citato sul sito :www.laboa.org.
Le forme da dare a queste case possono essere molteplici, da quelle dall’aspetto fiabesco, come le case coi tetti di paglia irlandesi o scozzesi, a quelle più in stile britannico con i muri bianchi e le travi di legno dipinte di scuro e il tetto in tegole grigie, fino ad arrivare a forme tonde, bombate e fantasiose dal gusto etnico e caliente dell’argentina con i tetti bassi e piatti, oppure ancora in stile molto pulito e asciutto dai tetti spioventi ed alti dal gusto nordico o ancora con uno stile tradizionale mediterraneo insospettabilmente dall’aspetto classico.
Imparare a costruire queste case è facile e rapido, si possono infatti seguire dei corsi in campo d’opera, ovvero in un cantiere.
Si va fisicamente a costruire, con le proprie mani, una casa e i corsi possono durare da pochi giorni, per avere un primo approccio, oppure prolungarsi fino al completamento di una stanza fino al tetto.
Lo spirito che mi ha subito affascinato, essendo donna, che le “femmine” non vengono respinte e guardate con sospetto e sufficienza per voler svolgere lavori di solito attribuiti solo agli uomini, anzi non solo sono ben accolte ma sono considerate alla pari e parte integrante del progetto, perfino persone anziane e bambini possono partecipare in alcuni dei passaggi, come per esempio l’intonacatura e l’eventuale decorazione dei muri e dei pavimenti.
Lette tutte queste cose prima sul sito : http://www.laboa.org di Stefano Soldati e poi sul libro di Barbara Jones, “Costruire con le balle di paglia”, ho deciso con la mia solita entusiastica intraprendenza, vista da molti a partire da mia madre con ironia e incredulità nel risultato, di contattare direttamente colui che mi aveva ispirato fiducia. Così ho scritto una mail a Stefano Soldati, sul mio progetto in Kenya. Gli ho illustrato il nostro progetto di trasferimento, della mia idea di costruirmi una casa con questa tecnica per non inquinare e non deturpare ambiente e natura ma soprattutto per sperimentarla prima sulla mia “pelle” e poi procedere, una volta visti gli eventuali problemi, costruendo l’orfanotrofio LeaMwana, per il quale nutrivo tanto interesse nell’aiutarlo da diversi anni ma alcuna risorsa economica sufficiente. Gli spiegavo che con questa tecnica saremmo riusciti almeno ad iniziare i lavori e poi chissà a trovare i finanziatori e poi i volontari e blablabla….. e la mia mente, la mia fantasia e la mia volontà di aiutare volavano sulle punte delle mie dita che digitavano veloci le parole…. e mentre scrivevo questa mail mi dicevo che forse, anzi di sicuro, mi avrebbe considerato un po’ matta, un po’ fuori dal mondo, una di quelle che si esalta come un bambino, senza rendersi conto dei limiti. Si vede però che anche Stefano deve essere un po’ matto o non so cosa, perché invece che cancellare la mia mail, o rispondermi evasivo, o mettermi davanti a delle problematiche insormontabili, facendo così crollare il mio entusiasmo, mi ha risposto che potevamo iniziare subito dall’orfanotrofio e intanto rispondendo a tutte le mie domande angosciate (la pioggiaaaaa durante il periodo delle piogge!!!???-quale pioggia? Piove più in Scozia a confronto!) e ai miei mille dubbi, mi stava concretizzando il sogno davanti agli occhi, i qauli si sono riempiti subito di lacrime. Ero emozionata.
Qualcuno mi dava retta, qualcuno voleva provare questa avventura senza dire subito: “non si può – è follia”.
Forse c’è davvero del folle in questo progetto, ma senza la follia positiva, mi chiedo che sarebbe la mia vita ora e quella di molte altre persone!!?
Ora sono qui, in questa terra che sento mia come non mai, a chiedermi come fare a divulgare questo mio progetto, come faccio a trovare tanti folli positivi come me,mio marito e Stefano e coinvolgerli in questi corsi?
Come faccio a far comprendere alle persone che i sogni si possono far esistere davvero ma soprattutto che la realizzazione di questi è possibile, solo se ci si mette insieme a più persone con tutto il cuore, la felicità e la fiducia ?!!
Si possono aiutare delle persone, dei bambini orfani, solo se si vuole davvero.

Nulla è impossibile. Nulla è impraticabile.
Le prime adesioni stanno arrivando ma ne servono ancora e molte di più!
Cerco persone curiose, di ogni estrazione sociale e cultura che vogliano sperimentarsi nell’imparare qualcosa di nuovo ed utile per loro ed allo stesso tempo un aiuto per dei bambini, per avere una casa migliore dove vivere.
Io pagherò il corso per me, per mio suocero che ho in pratica forzatamente reclutato(ma questa chiamata, sono sicura l’ha accolta con piacere) e per due persone del luogo, dei locali, così che il know-how non si disperda e con i quali potremo poi continuare a lavorare a questo progetto ed io spero a molti altri.
Spero che questo primo mese di corsi sia solo il primo di una lunga serie.
Spero che questa esperienza porterà conoscenza su una tecnica nuova, con materiali ecologici e poco costosi e che potrà aiutare non solo gli occidentali a costruirsi case di nuova ideologia e concezione eco-friendly ma anche le popolazioni locali più povere, che potranno costruirsi case più solide e durature con minor costi.
Spero e desidero che tutto ciò avvenga e chiedo anche il vostro appoggio, aiuto, anche solo diffondendo il link del mio blog, inoltrando il testo in una mail a degli amici, chissà che fra loro non ci sia qualcuno che possa essere interessato!?
Non metto mai limiti alla potenzialità delle persone.
Per questo credo nel progetto dell’orfanotrofio LeaMwana costruito con le Balle di Paglia.

Read Full Post »

Malindi 5 marzo 2010 ore 18.40 ora locale (Italia -2ore)

Domenica africana, calda ma ventilata, abbiamo deciso di andare in spiaggia e portare con noi solo alcuni dei bambini del Lea Mwana per passare la giornata e fare il bagno. Quando li portiamo tutti insieme diventa faticoso parlare bene e con calma anche solo con uno di loro, i pensieri e i concetti che loro vorrebbero esprimere e che io vorrei passargli si perdono nel chiasso e nelle risate del gruppo. Quindi a malincuore abbiamo fatto una selezione, è brutta la parola ma vanno presi così, per piccole unità.
Con noi c’erano Nassib, Albert e Amani, di 8, 10 e 13 anni che abbiamo “adottato” noi, poi Eric, Eddy e Antony, di 9 e 8 anni che sono stati sponsorizzati dai nostri amici Gloria, Giovanni(detto Gufo) e Rita, infine Abubakar 11 anni che è “figlioccio” oramai nostro ma è stato anche lui adottato dalla nostra amica Giovanna e famiglia.
Con questa allegra ma silenziosa brigata siamo andati sulla bellissima spiaggia di Malindi vicino al molo; vi si accede direttamente dal pieno centro caotico e trafficato della cittadina e quasi non lo diresti nella calma e nel silenzio sterminato di questa spiaggiona.
Mi rallegro quando li guardo felici nel loro coraggioso tentativo di nuotare, nuotare si fa per dire, sembrano dei paperi in cerca di pesci sul fondo, sempre col sedere in sù e con la testa ficcata verso il fondo, mentre le braccia ai lati roteano furiosamente per cercare di stare a galla e allo stesso procedere nelle onde. Vivono a 5 minuti dal mare ma non sanno nuotare.
Non vedo l’ora di poter stare nella casa che abbiamo affittato dal 1° di aprile, dove c’è la piscina, così da insegnarglielo.
Nel frattempo mi accontento di portarli con me in mezzo alle onde in pochi centimetri d’acqua.
Dopo un’oretta di annaspamenti siamo tornati verso i lettini e gli ombrelloni in makuti (fatti con le foglie di palme di cocco sfrangiate) della spiaggia privata del Melinde (hotel in pieno centro di Malindi) e a quel punto ho affrontato con Albert lo spinoso argomento dei suoi bassi voti che ho ricevuto ieri da Christopher via mail.
Non va bene su nessun fronte e non capisco come mai.
Albert è un piccolo bambino di 10 anni, appare di fisico come uno di 6 e pure un po’ mingherlino. Di testa purtroppo non so capire molto come sia davvero, visto che davanti a me, a noi è timidissimo, non apre bocca quasi mai e il fatto che non parli ancora bene inglese non ci aiuta nel comprenderlo appieno.
Pur avendo 10 anni frequenta la seconda elementare, perché è stato accolto nella struttura solo 4 anni fa e non era assolutamente in linea con le conoscenze normali dell’età, non parlava praticamente kiswahili, né tantomeno inglese, a 6 anni quindi ha iniziato i 3 anni d’asilo che sono previsti qui per avere le basi di kiswahili e quindi in questo periodo ha fatto passi da gigante ed ora si trova in seconda elementare.
Mi sono messa con lui a fare e rifare i numeri, prima scritti in cifra e poi facendoglieli scrivere prima in inglese e poi in kiswahili. E’ intimorito, bloccato sembra a volte come ritardato ma se lo guardi in faccia, mentre si sforza nel pensare e dare la risposta giusta gli vengono dei tic sotto l’occhio sinistro e così capisci che è solo nervosismo, sicuramente ha delle lacune, di sicuro sa di essere indietro e quindi s’innervosisce bloccando come tutta risposta il suo cervellino insicuro.
Mi si stringe lo stomaco e mi viene su un magone che mi riempie gli occhi di lacrime ma resisto, ingoio aria e cerco di non pensarci, mi do un contegno da maestrina dolce ma ferma e continuo decisa nel chiedergli di rispondere.
Alla fine dopo 2 ore di tentativi, ragionamenti su come si arriva a 100 e su come a 134, sia in inglese che in kiswahili, dopo numerosi incitamenti e discorsi su come lui sia intelligente e non ci sia nulla di male a non sapere o a sbagliare, Albert era felice di aver dimostrato che era capace di comprendere, leggere e scrivere senza fare errori. Soprattutto era felice che nessuno l’avesse sgridato. Non te lo dimostra raccontandotelo o spiegandosi ma il suo sguardo diretto e fisso nei miei occhi e l’assenza dello spasmo sotto l’occhio parlano e spiegano più di mille parole.
Arriva il momento di tornare a casa per tutti, ovunque e qualunque sia la casa in questo momento, per loro un orfanotrofio e per noi un appartamento in affitto. Carico i 7 bambini con me su di un tuc tuc e mi avvio al Lea Mwana, nel tragitto abbiamo parlato della giornata e abbiamo anche discusso su come sia importante credere in noi stessi e nei nostri obbiettivi, discorsi filosofici sull’autostima, forse troppo sconfinati per delle testoline di bambini così piccoli e così indifesi poco abituate a ragionare fuori da rigidi schemi di disciplina e studio. Troppo lunghi anche per essere digeriti in pochi kilometri traballanti di tragitto, a qualcosa serviranno, intanto è un inizio, mi dico e sull’entrata del cortile, li faccio scendere e li guardo mentre rapidi entrano uno in fila all’altro senza quasi voltarsi, senza dire ci vediamo, s’infilano dentro nella stanza buia e poi quasi timidamente qualcuno rispunta col naso fuori a vedere se sono ancora là. Alzo la mano, li saluto lentamente :“Tutaonana kesho”(ci vediamo domani) e faccio segno al guidatore di fare retromarcia. Il sole è basso su di un cielo rosa e quasi sembra accarezzarti  gli occhi, per un attimo mi estraneo ma subito rientro nella realtà mi guardo intorno mentre l’ape piaggio mi riporta a casa veloce e saltellante sui dossi e fossi delle strade dissestate di Mujeje, quartiere sconfinato e poverissimo di Malindi,  forse è più idoneo chiamarlo per quello che è :una baraccopoli alle porte del centro, con casupole fatiscenti, pochi edifici in pietra e cemento assenza di strade vere con spazzatura e fogne a cielo aperto. Mi guardo intorno come se qualcuno mi avesse tolto un velo pesante dagli occhi e mi rendo conto cosa questi bambini vedono tutti i giorni. Distese di spazzatura ovunque, sacchetti di plastica che giacciono incastrati in ogni dove, galline, vacche e capre a razzolare in mezzo a questi ed altra spazzatura come se fosse normale. Un paesaggio desolato, brutto, sporco indescrivibile credo con le parole e forse anche con una foto che non rende abbastanza l’abruttimento del luogo.
Mi sento piccola, inerme, schiacciata da questa inevitabile realtà: non posso fare abbastanza non sono sufficientemente potente per risolvere questo.
Per un attimo mi sento che mi manca il fiato per il pianto che sta arrivando come in piena, mi chiedo, cosa sto a fare qui ma a cosa servo?Dove credo di andare e chi credo mai di essere?
Sono un’illusa, una scema ragazzina che crede nelle utopie invece che una donna matura consapevole dei propri limiti. Non posso nulla a confronto di tutto questo squallore.
Mi sento sconfitta.
Poi mi ricordo dello sguardo di Albert e mi dico, però oggi hai forse instillato un po’ di autostima ed orgoglio in uno di loro, l’ha visto felice e sentirsi meglio.
Sono pari, sono uno pari con questa vita di merda.
Per ora va bene così.

Read Full Post »

La felicità quasi obbligatoria per affermarsi, raggiungere i propri obbiettivi.

Come se la felicità dovesse essere una componente indispensabile per ottenere quello che si desiderava.

Questo ci hanno insegnato alla scuola tedesca Istituto Giulia di Milano, che ho frequentato dall’asilo fino alle medie, e purtroppo o per fortuna non ho potuto completarla fino alla maturità come era stato previsto, perché ha chiuso prima per mancanza di fondi, o di suore(era cattolica e femminile) o di vocazioni, o non so… e non ho potuto completare il mio percorso nell’altra scuola tedesca, per mancanza di soldi, o forse anche per mancanza di una mia soddisfacente preparazione (ero una svogliata cronica con la sufficienza e non era abbastanza) e forse quest’ultima ipotesi era suffragata dal fatto che all’epoca non ero nemmeno sufficientemente felice.

Wer schaffen will, muss frölich sein…lo dicevano anche  le parole scritte nel cortile della scuola sul muro d’ingresso ….sei non sei felice non puoi realizzarti, non ce la puoi fare.

All’epoca la leggevo come una presa in giro, uno “sfottò “come  mi diceva mia madre quando gliela traducevo, “facile per loro dire così”.

Ma non era tale, non sapevo io, nè lei che era tratta da una poesia che qui sotto riporto nella sua interezza.

In ogni caso l’invito che sembrava un imperativo stava lì per ricordarci che dovevamo avere la gioia nel cuore per raggiungere i nostri traguardi.

Appariva per certi versi un pò simile alla più celebre e inquietante frase che era affissa su un cancello ancor più famoso :”Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) e che era messa lì in modo orribilmente sinistro ed ironico.

Al tempo la frase sulla felicità mi appariva scritta con lo stesso spirito, come nei campi di concentramento e con lo stesso umore entravo tutti i giorni nell’edificio.

La mia esperienza in quella scuola mi è servita e tanto. Ho capito molte cose e sono cresciuta nella consapevolezza che non andava bene per me e la mia delicata natura.Sembra poco e invece è tantissimo.

In ogni caso non è stata così pessima come scuola e come corpo insegnanti. Anzi a lei e alla loro rigidità, schematizzazione di tutto, inquadramento eccessivo e appiattimento delle caratteristiche individuali di ognuno di noi, ho imparato molto, per quello che andava fatto e per quello che assolutamente non andava fatto, per me e per altre bambine e persone in generale.

Ho imparato a personalizzarmi nello studio, nell’apprendimento ancora di più di quanto avrei fatto in una scuola più libera. Ho imparato a non arrendermi nonstante mi dicessero che non andavo bene. Ho imparato che se lì non ero ritenuta intelligente, potevo essere riconosciuta come tale in altri luoghi e poi ho imparato che bastava lo fossi per me stessa. Ho imparato molto nel bene e nel male dai loro insegnamenti e dai loro errori.

E ho imparato su  quella frase, che all’epoca mi risuonava come una macabra ironia per la mia triste condizione di vita, che in realtà era vera.

La mia svolta c’é stata e l’illuminazione è arrivata quando, nonostante  le brutture che mi erano capitate, nonostante la condizione disagiata, faticosa e in salita della mia vita, se avessi trovato la felicità nel cuore sarei riuscita a farcela, in tutto.

Così è accaduto e così sta accadendo.

Quindi anche solo per quella frase che mi risuona spesso nella testa, e nel cuore io ringrazio quella scuola.

Theodor Fontane

Du wirst es nie zu Tücht’gem bringen
Bei deines Grames Träumereien,
die Tränen lassen nichts gelingen:
Wer schaffen will muß fröhlich sein.

Wohl Keime wecken mag der Regen,
der in die Scholle niederbricht,
doch golden Korn und Erntesegen
reift nur heran bei Sonnenlicht.

Read Full Post »