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Posts Tagged ‘aiutare il prossimo’

Diani-10 novembre 2010 ore 23.45 ora locale(-2 ore in Italia)

Ce lo dicevano in tanti, prima che iniziassimo la nostra avventura quaggiù che aiutare la popolazione locale non sarebbe stato facile, né così scontato. In effetti i diversi commenti e considerazioni e raccomandazioni hanno più o meno trovato tutti rappresentazioni nei dati di fatti più che nelle opinioni nostre che volevano essere più ottimistiche delle premesse.

Aiutare non è semplice.
Questo però non lo è qui e credo in nessuna parte del mondo e per nessuna situazione o persona.

L’aiuto che uno vuole dare spesso non è quello che l’altro si aspetta e anche se ci si spiega tra le parti, spesso comunque una delle due parti rimarrà delusa.

Aiutare persone povere in difficili situazioni culturali generali ed economiche lo è ancora di più.

Lo vediamo da anni con il nostro paese, con il meridione, io sono per una parte meridionale d’origine e questo nostro paese l’ho girato e posso assicurare che effettivamente le discrepanze si sono sempre viste. Nonostante gli aiuti stanziati quando questi arrivavano erano sempre dati in mani sbagliate e forse(?)arrivavano anche decurtati rispetto alla partenza.

In ogni caso non è dell’Italia che volevo parlare anche se spesso mi ritrovo a fare parallelismi con la nostra condizione, la cultura, la mentalità e spesso ci trovo molto più simili di quanto vediamo o vorremmo vedere ed ammettere.

Aiutare le popolazioni diverse da noi non è sempre facile, soprattutto aiutarle attraverso enti, onlus, ong, organizzazioni mondiali che non sai mai davvero in che percentuale usino i tuoi soldi per la popolazione piuttosto che per farsi pubblicità, usarli nel marketing e viverci pure.

Così quando ti spingi direttamente in certi luoghi ti viene più spontaneo, o almeno per alcuni di noi, darti da fare e mettere mano al portafoglio.

In questi anni frequentando un po’ il Kenya, soprattutto un orfanotrofio ne abbiamo viste di tutti i colori e forme e devo dire che la poesia romantica di aiutare per il gusto puro di farlo insieme ed in gruppo ad altre persone magari sconosciute viene un po’ a mancare.

Come dicevo ne abbiamo viste tante, da i turisti che arrivano in pulmini, portati dalle guide a visitare l’orfanotrofio che scendono armati di macchine fotografiche e videocamere come se fossero ad un safari con soggetti umani, anziché animali. Quelli che scendono, si guardano attorno e cominciano ad elargire caramelle ai bambini, riprendendo e commentando ogni movimento del piccolo mentre scarta l’ennesima caramella del giorno. La sua faccia perplessa infatti non è perché non ha mai visto una caramella, quanto più perché non si spiega che ogni persona bianca che arriva deve dargliene una e non è contento finchè non la mette in bocca.
Ma vaglielo tu a spiegare al turista che non sono scimmie che scoprono i colorati bon bons.

C’è poi la signora armata di scatola di biscotti sotto il braccio che aiutata dalla figlia più piccola riunisce i bambini nella sala da pranzo e comincia a lanciare i micropacchetti ai bambini che dopo le prime perplessità si siedono composti e alzano a turno la mano per afferrare i 4 biscotti.
Mentre tu guardi la scena a bocca spalancata ti appare davanti la scena della tizia allo zoo mentre lancia arachidi incurante di un guardiano che scuote la testa sotto il cartello “non si deve dare cibo alle scimmie”.

Poi ci sono i ragazzotti e anche uomini sulla sessantina che arrivano si piazzano la bimba più bella del gruppo sulle ginocchia e fanno la foto ricordo senza nemmeno ricordarsi dopo 10 minuti come si chiamava, senza nemmeno aver chiesto come stava, da dove veniva, la sua storia.

A te, vengono i brividi di disgusto.

La gente viene qui, lancia biscotti, caramelle e filma e riprende tutto, fa la foto ricordo e se ne torna in albergo e poi a casa, pensando di aver fatto quello che poteva e di aver lasciato una buona impressione.

Ci sono anche quelli che più toccati nel profondo arrivano, vedono e in 3 minuti capiscono tutto e dopo 3 giorni si lanciano in immediate campagne per aiutare i bambini, tra gli amici in vacanza con loro, raccolgono i soldi e li donano al direttore, il quale ben contento gli porge una ricevuta e questi, sicuri della serietà si prodigano appena tornati in Italia a raccogliere fondi per costruire il nuovo padiglione, ristrutturare la cucina, comprare nuovi letti etc etc.
Spesso queste persone armate di tutta la buona volontà e fiducia nel prossimo, raccolgono davvero i soldi, li inviano e poi chiedono al direttore di ricevere informazioni che raramente riceveranno e ancor più raramente potranno verificare in futuro, perché con molta probabilità non torneranno più in quel paese.
Molti altri tornati dalle vacanze ci provano per un po’ poi desistono, presi anche da altri impegni e la vita che scorre frenetica e si dimenticano fino al prossimo viaggio dei bambini poveri di quell’orfanotrofio.

Noi con la nostra famiglia e un gruppo oramai allargato di amici, aiutiamo da tempo con diversi piccoli progetti anche un orfanotrofio vicino Malindi.
Perché abbiamo deciso di aiutarli? Perché siamo tra quelli di uno degli esempi, tornati in Italia abbiamo deciso di fare qualcosa di più ma con una variante. Abbiamo deciso di controllare personalmente quasi ogni fondo o sponsorship portata fisicamente al direttore.
Quindi una volta tornati abbiamo comprato direttamente merce che effettivamente serviva alla struttura, l’abbiamo fatta consegnare, mentre contemporaneamente la vecchia veniva rimossa e abbiamo fatto in modo che ogni piccola o media cifra donata venisse in 4 anni gestita, solo così e in nessun altro modo.
Ovviamente i soldi per le sponsorizzazioni, per le rette scolastiche non è stato possibile monitorarle ma venendo spesso in Kenya prima del nostro trasferimento abbiamo potuto notare che i bambini venivano effettivamente mandati a scuola e chi più e chi meno faceva progressi con l’inglese e non solo.
Ora tra i tanti “turisti degli orfanotrofi” ci sono anche personaggi che si lasciano facilmente trascinare in imprese grandiose di raccolta fondi dopo solo pochi giorni di conoscenza del paese, del luogo, delle persone e della cultura e soprattutto della struttura, queste persone si proiettano “in uno spot”, attrezzandosi in prima persona con siti web, brochure di presentazione, biglietti da visita, addirittura operazioni di marketing ad hoc con storie semi-vere e foto a forte impatto emotivo, conti bancari intestati a loro nome, etc etc  lanciandosi in crociate per questi bambini da lasciare molti a bocca aperta per l’entusiasmo dimostrato ma spesso per la fiducia spropositata che ripongono.

Accade spesso che i rappresentanti delle fondazioni serie, che gestiscono fondi e progetti sul posto, si chiedano e a volte indagano anche, per capire se questi individui siano del tutto ignari  dei rischi e credano ad ogni persona che mostri dei bambini sull’orlo della miseria, chiedendo loro soldi, o se invece siano mosse da altre leve, ovvio immaginare di che tipo e forma potrebbero essere queste, soprattutto in un paese come il Kenya.

In questo breve periodo di 4 anni sentendone e vedendone in prima persona molti di questi esempi di persone non proprio armate da buone intenzioni o comunque non sempre improntati con seria professionalità ed umanità, mentre molte altre tragicamente poi ingannate e deluse dall’esperienza di aver donato molti soldi con molta fiducia, senza poi averli visti di fatto mettere in pratica in opere e progettazioni promessi, abbiamo deciso di continuare i nostri micro-progetti investendo in prima persona, fondi, tempo e lavoro diretto per evitare che i soldi donati venissero dirottati verso altri scopi.
Com’è stato per il progetto “0” del dormitorio con le balle di paglia. Questo progetto è stato inizialmente finanziato totalmente da noi e la nostra famiglia e da qualche amico e poi piano piano si sono aggiunti altri amici che hanno così ridotto il nostro contributo, aiutandoci anche nella realizzazione concreta. Questo progetto doveva servire soprattutto per provare a portare una nuova-vecchia tecnica di costruzione, molto utile da imparare per la comunità locale perché usa di base gli stessi materiali che loro già conoscono(terra, argilla, calce, legno e paglia), la stessa modalità di autocostruzione(di solito si riuniscono tra parenti e amici e costruiscono una stanza alla volta), inoltre il basso impatto economico ed ambientale ma l’enorme differenza era portare abilità nuove per far durare la casa, la struttura molto più a lungo che le loro normali case fatte di fango, sassi e legni legati fra loro, le quali dopo 2 o massimo 4 stagioni delle piogge crollano miseramente.

Il progetto “0” significa che siamo partiti per fare una prova con la comunità locale che in parte è stata compresa e in buona parte ha permesso a noi di comprendere come avanzare per migliorare approcci e metodologia con una cultura totalmente diversa dalla nostra.
Qui infatti sono emerse le evidenze di diversità per le quali amici e conoscenti che frequentano il Kenya da tempo ci avevano messo in guardia.
La cultura keniota soprattutto sulla costa è impregnata di una mentalità di assistenzialismo, dove il bianco, il ricco arriva e da soldi. Punto.
Senza chiedersi a cosa servano davvero, senza chiedere se servono davvero quelli o se invece serve un macchinario, magari per aumentare destrezze e produttività.
O ancora se serve una tecnica per aumentare professionalità e cultura o se serve magari sì, un aiuto economico ma gestito diversamente per fargli costruire per esempio un pozzo e intanto imparare a farlo, per poi rendere indipendenti delle persone.
Magari anche insegnando loro a crearsi un orto così da rendersi autonome in buona parte.
No, il bianco è visto come un bancomat. Lui arriva, io tendo la mano e i soldi spuntano dalle tasche.
Questo poi purtroppo è rafforzato da un effettivo atteggiamento diffuso in molti occidentali.

Le persone di qui, quelle più colte, più intelligenti, più sensibili e più desiderose di emancipazione e cultura ce lo dicono da anni: teneteli i soldi e aiutateci a crescere, gestite voi i soldi insegnandoci a farlo, non date soldi ad un africano non li userà per quello che davvero dice di voler comprare ma li spenderà per altri stupidi scopi.
Questa è la tiritera che se ti fermi a parlare con un certo tipo di gente e soprattutto con i missionari religiosi e laici ma non solo, ti sentirai ripetere fino alla nausea.

Noi quindi abbiamo applicato questa tecnica quasi alla lettera e si potrà capire quindi, quante difficoltà abbiamo incontrato sul nostro percorso, ovviamente, e ce lo aspettavamo anche se non così tante, dai locali, che si sono prima stupiti, poi risentiti e poi di nuovo stupiti dell’assenza da parte nostra di elargire soldi da far gestire a loro per comprare i materiali o peggio per pagare persone non professionalmente valide per svolgere un compito che era svolto da un vero professionista oltretutto volontario ma cosa ancora più assurda e più sconvolgente, abbiamo incontrato anche alcuni nostri connazionali, veramente risentiti dalle nostre raccomandazioni.
Queste care persone, purtroppo ancor più ignoranti(dal verbo:ignorare, significato:colui che ignora che non conosce), dei sottoscritti, sulle culture  e sulle mentalità del luogo, perché alla loro prima esperienza, hanno rifiutato in maniera ferma e sicura gli esempi non proprio edificanti, vissuti da altri concittadini che abbiamo citato loro ma non solo, hanno deciso di donare ed inviare denaro frusciante a cascata su progetti ancora campati per aria e senza il minimo controllo e ci siamo sentiti anche aspramente criticati per la nostra malafede.
Che dire…dare fiducia è difficile e veramente difficile, riporla anche e a volte poi si viene così tanto confusi dalle emozioni e dalle spinte caratteriali da farci prendere vie più impervie.
Ma si sa che ognuno di noi deve fare l’esperienza che più gli serve per comprendere appieno come comportarsi e proseguire.
Noi ci sentiamo di dire a chiunque abbia avuto una brutta esperienza in merito a donazioni di non perdere la fiducia, di provare a continuare ad aiutare, di farlo magari se si può personalmente o attraverso persone che conoscete.
Nonostante le delusioni anche da noi subite in diverse situazioni non ci stiamo arrendendo anche se a volte lo sconforto arriva, perché capiamo che è solo attraverso gli errori che si cresce e si comprende meglio noi stessi e la vita.

Aiutare col cuore e riuscirlo a fare senza rimanere delusi da aspettative mancate insieme alla fiducia ben riposta sono la cosa più bella da provare, quindi nonostante le difficoltà, gli errori e i dubbi che si possono incontrare in un progetto piccolo o grande che sia, non molleremo perché il risultato finale è quello che davvero conta e non gli incidenti sul percorso.

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Diani – Kenya , ora locale 20.09 (-1 ora in Italia)

Non so bene da dove cominciare i pensieri e le parole si confondo, accavallandosi…parto quindi per natura o forse in realtà per mia deformazione professionale dai conti:
Dal conto economico visibile in allegato nelle note posso riassumere che la prima costruzione, ovvero il primo dormitorio per l’orfanotrofio LeaMwana (ma sono state create anche le fondamenta del secondo dormitorio), è costata comprensiva di tutto, incluso alcuni costi di ricerca e spedizione e soprattutto il costo del reperimento dell’attrezzatura un totale di € 6.199 .
Il dormitorio misura 6 per 8 metri interni(7 x 9 esterni) ed ha un’altezza minima di 2,60 e massima 2,80. E’ stato completato fino al soffitto realizzato in canne di bambù ed è stata intonacata in terra cruda e paglia.
Le donazioni raccolte per i costi sostenuti sono state ad oggi di € 6.130 (vedi lista in allegato con nominativi ed importi).
La maggior parte del lavoro è stato effettuato con contributo volontario da parte dei locali: Ibrahim, i fratelli Ken e Ben, Charles e Mwangi, da parte dei corsisti arrivati dall’Italia, ovviamente da parte della mia famiglia, ovvero da parte mia, di mio marito, dei miei suoceri e di mia madre.
Enorme contributo ci è stato dato dall’Hotel Melinde nella persona di Eloisa Minoprio la quale anche con la sua famiglia ha anche contribuito economicamente al progetto. Altrettanto indispensabile e prezioso aiuto e contributo ci è stato fornito dal mitico signor Gordon proprietario del bar-ristorante TICS a poche centinaia di metri dal luogo dell’orfanotrofio.
Vari ringraziamenti anche ai cari guidatori di tuc tuc, Mike-Maina, Wachira, Dankan e Mohamed senza i quali non saremmo riusciti a trasportare sani e salvi e in tempo i volontari, i corsisti e a volte anche i materiali!!!
Ora nel concreto cosa manca e a dopo i più approfonditi ringraziamenti….
Ad oggi servirebbe finire :
>l’intonacatura con altra terra cruda e l’unico costo sarebbe degli operai (4 persone per 1 settimana 350scellini al giorno l’uno), l’acqua per mescolare la terra (circa 50 taniche a 5 scellini l’una);
> ultima mano con calce(circa 5 sacchi a 2500scellini l’uno) con relativi operai (idem come sopra per gli operai);
>copertura soffitto in lamiera (lunghe 3 metri larghe 1,5 ce ne vogliono almeno 24 pezzi ad un costo di circa 1900scellini l’una), minuteria come viti ed etc per fissarle ed operai specializzati(4 operai, montaggio in 5 giorni ad un costo di circa 450 scellini al giorno a persona);
>Pali di sostegno per lamiera e per ricreare piccolo porticato a sostegno della lamiera che fuoriesce dai muri (circa 25 pali, un costo approssimativo di 9000 scellini);
>Porta e telaio con serratura e chiavistelli di sicurezza interno ed esterno (7000scellini);
>2 telai e finestre con sbarre (3500 scellini cad);
>telai e zanzariere per finestre e spazi rimasti liberi sotto il tetto (4000 scellini circa).
>Pavimentazione da definire successivamente
>Impianto elettrico da definire successivamente
>Varie ed eventuali da capire successivamente.
Questo per completare definitivamente il primo dormitorio che accoglierà 8 letti a castello per un totale quindi di 16 bambini.

I direttori del Lea Mwana si stanno impegnando a raccogliere i fondi per completare questo dormitorio e poi continuare la costruzione, per ora di sicuro c’è che se riuscissimo a dare ancora una mano a questi bambini, raccogliendo personalmente i fondi e amministrandoli come fatto finora e poi organizzando i lavori con persone fidate, saremmo certi della riuscita e delle tempistiche.


Infatti in soli 3 mesi siamo riusciti ad organizzare molte cose, dal trovare la materia prima, ovvero le balle di paglia e farle trasportare qui e non è stata cosa facile come si può credere, trovare dei volontari, cosa altrettanto non semplice qui in Kenya, fino a portare dall’Italia grazie a Stefano Soldati, docente costruttore specializzato in balle di paglia che ha organizzato due gruppi di lavoro eccezionali, a Siria dell’agenzia Orobica viaggi che ha gestito per molti di loro i voli e non solo. Poi siamo riusciti ad avere preziosi aiuti da molti come Mariangela, mitica ingegnera, sì con la A e se si potesse pure maiuscola, che ha dovuto creare un progetto basandosi su miei vaneggiamenti dati dall’ignoranza in architettura e dal caldo equatoriale e dallo sfibramento dell’ ”architetto” locale che aveva realizzato un progetto di dormitorio senza porte, nel senso che non si sapeva da dove far entrare i bambini…non c’è da ridere è la verità, ho le prove! A Jason Brayda che senza conoscerci da Nairobi si è fiondato sulla costa più volte per aiutarci e districarci in cose per molti banali che per noi erano come trattare di astrofisica…tipo fare delle fondamenta.
Fino ad arrivare agli sponsors, piccoli, medi e grandi, persone singole, gruppi di amici, anonimi e realtà locali che hanno donato soldi, materiali e non solo, ci hanno donato fiducia ed ottimismo!
Un dono enorme, che ci ha permesso di tirare fuori forza e grinta per continuare in questa impresa che per molti può essere sembrata piccola ma posso assicurare che è stata titanica.
Come molti sanno non siamo del mestiere e mettersi a costruire non è una cosa da poco se si tratta poi di un dormitorio per dei piccoli di un orfanotrofio la cosa si fa ancora più grande. Eppure ce l’abbiamo fatta e questo grazie a tutti quelli che ho messo in elenco nel file del conto economico.
Spero di non aver dimenticato nessuno e di essere stata precisa nella spiegazione delle diverse donazioni, se così non fosse perdonatemi e scrivetemi e provvederò a correggere!!!
Devo però ringraziare per questo progetto anche le avversità avute, le persone che ce l’hanno gufata, tanto per parlare semplice e per quelle che hanno sparlato dicendo che eravamo ridicoli e non ce l’avremmo fatta o che peggio, ci stavamo guadagnando!
Bene, grazie anche a loro, se con l’ottimismo e la fiducia abbiamo tirato fuori forza e grinta, beh con questi ultimi abbiamo tirato fuori le palle, sempre per parlare semplice e la mia natura di mettere tutto per iscritto ci è andata a nozze nell’elencare maniacalmente tutto, ogni singola spesa anche di 5 scellini.
Ed ecco per tutti il resoconto dettagliato delle uscite e delle entrate!
Grazie a tutti voi, nessuno escluso, perché ci avete reso più forti e determinati ma soprattutto consapevoli dei propri limiti ma ancora di più delle proprie potenzialità.
Ringrazio ovviamente anche mio marito, adorabile, instancabile, forte e delicato uomo che mi sopporta e che mi rende così sicura di fare tutto, “solo” perché so che lui mi sostiene, sempre.
Grazie, grazie, grazie ed ora, infine come ultimo inchino, ringrazio anche il Signore, perché in tutta questa bellissima avventura ho riscoperto anche la fede.
Grazie!

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Malindi 29 agosto 2010

Questi ultimi mesi sono passati così velocemente ed intensamente che a volte mi chiedo se vivo qui da sempre.
Mi fa ritornare alla realtà il fatto che ho i miei amici storici lontani, che non li sento spesso come prima e che soprattutto non organizzo cene e grigliate da noi con tutti loro.
Mi mancano nei pochi momenti vuoti che ho, dove cerco di godermi la pace e la quiete mi accorgo che mi mancano. Ma è stata una scelta la mia, la nostra, quella di sorvolare un continente, abbandonare la nostra terra e abbracciare una nuova vita e calpestare una terra diversa. Una nuova avventura. Sapevamo i rischi e più o meno abbiamo calcolato le pecche che per ora tolleriamo, certo è che quando vuoi bene a qualcuno fai fatica ad abituarti alla loro mancanza e questa è la pecca peggiore, sembra a volte una punizione.
Ma la vita è strana e bella anche per quello che ti può togliere, e sto capendo da tempo che a volte toglie, perché poi deve dare qualcosa che ancora non si sa e non si immagina ma qualcosa arriva, sempre anche un insegnamento che vale molto di più del tolto..
L’ho imparato presto e da tempo lo so e di questa consapevolezza, quando ero piccola me ne facevo a volte un cruccio, a volte una speranza.
Quando mio padre è morto all’improvviso e siamo finite, mia madre ed io nel tipico precipizio economico con poche speranze per una donna di 50anni senza lavoro e senza un solo risparmio, con una bambina di 9 anni, ho imparato che ci sono persone che inaspettatamente ti aiutano anche con poco, per loro ma che in realtà è tanto per te.
Quanti pomeriggi ho passato, ospite delle mie compagne di classe, che prima che io diventassi il caso umano della scuola, nemmeno mi calcolavano? Tante di loro, lo sapevo, avrebbero preferito altre compagne di giochi ma alla fine è nata un’amicizia, anche se forzatamente prima e anche se poi durante la crescita ci siamo perse, dopo con piacere ci siamo ritrovate e riscelte e ora siamo legate da un bel legame che è ancora più prezioso.
Quante cene calde ho avuto prima di affrontare ore di viaggio per tornare in una casa che era troppo lontana dalla città e dalla scuola ma che era l’unica che avevamo avuto gratis da amici. A loro sembrava di fare poco dandoci una ex-portineria per casa ma per noi alla fine era tantissimo e per le mamme delle mie amiche era quasi nulla darmi da mangiare, in realtà era enorme l’aiuto che stavano dando a me e a mia madre.
Quando ci stavamo risollevando, poco dopo il lutto e il dissesto economico, abbiamo perso tutto nuovamente, per colpa di un incendio doloso del nostro vicino e siamo finite a vivere in una topaia di albergo. Era pur sempre un appoggio, il quale ci ha permesso di avere una stanza calda e un bagno e lì in quei momenti ho anche imparato che i vestiti che avevo donato io, attraverso la scuola anni prima ai poveri, con un gesto banale e neppure consapevole, ora, attraverso lo stesso gesto di altre persone come me in precedenza, era indispensabile per aiutare me e a mia madre per coprirci da un inverno pesante e dall’impossibilità di comprarci qualcosa.
Ancora tempo dopo, quando da quella casa oramai inagibile per l’incendio, siamo finite a vivere a Milano in una casa a ringhiera, dentro una soffitta per casa, non era coibentata e per le molte perdite nel tetto, ci faceva morire di caldo d’estate e di freddo ed umidità di inverno. Ma ho imparato che ero, nonostante questi problemi, molto fortunata. Intanto non ero più così distante dalle mie amiche e da scuola e nonostante i difetti della casa, valendo questa poco, costava anche poco, quindi mia madre poteva pagare l’affitto e questo era già tanto per me. Grazie anche a questa soffitta ho imparato, dipingendola, sistemandola e riadattandola, facendola diventare quasi una vera casa ad usare le mani e la creatività soprattutto di tipo economico e che ora tanto ringrazio!
Quando solo poco tempo dopo, un nostro vicino di casa che soffriva da tempo di disturbi mentali, ha cercato di uccidermi, tentando di accoltellarmi prima e di gettarmi poi dal primo piano della casa a ringhiera nella quale vivevamo, ho imparato che la mia voglia di vivere era più forte della mia depressione e che la mia forza di sopravvivenza era più energica di un uomo 3 volte più grande di me con tanta voglia di spaccare il mondo e le persone. E l’ ho imparato ed ho avuto conferma che ci sono persone splendide che non hanno esitato un attimo per salvarmi, poliziotti e vicini di casa, persone semplici che senza pensare troppo alla loro incolumità mi hanno strappato a morte certa.
Ritornando al primo episodio nella mia vita, la morte di mio padre che ha rotto un falso perfetto equilibrio di una bambina di soli 9 anni in una famiglia apparentemente normale, mi ha insegnato tanto e posso dire in positivo. Tornando infatti a quel momento, posso dire che mio padre è morto all’improvviso per noi ma in verità non per colpa di una malattia scoperta improvvisamente o per un incidente ma perché all’improvviso ha deciso di palesare un suo malessere che nessuno vedeva o voleva vedere da anni, forse decenni, decenni di solitudine. Ha preso la pistola di suo padre, ha cercato un posto isolato sotto un ponte vicino a casa e ha deciso di portarsela alla tempia e sparare un colpo.
Ci ha lasciati così, con un vuoto lacerante, molti dubbi, inutili innumerevoli domande senza risposte e un troppo sintetico biglietto con spiegazioni troppo semplici per accettare una morte di un essere vivente, di un sensibile uomo, di un dolce padre.
Mio padre era morto dentro da tempo ma nessuno se ne era accorto, viveva una vita non sua con una forza che non era forza propulsiva ma solo di inerzia.
Dopo la sua morte e per la sua morte la mia vita è stata una continua lotta, dove le discese sono state rapide e dolorose e le salite lente e altrettanto dolorose ma ora ho imparato che quando arrivo in cima è perché l’ho voluto io e solo io. Ho imparato che non importa che lavoro si faccia, che compiti si svolgano, ho imparato a sopravvivere a tante situazioni pesanti e spesso anche tutte contemporaneamente. Ho imparato quanto una vita sia importante ma soprattutto che “Come si vive una vita”, ha un’importanza enorme. Ho imparato tanto dalla mia vita, per questo non voglio smettere di farlo, non voglio fermarmi davanti a nulla, non voglio avere paura di niente e soprattutto non voglio smettere di pensare che qualcosa sia impossibile da raggiungere. Io ne ho avuto dimostrazione, anche ora mentre ho affrontato mille problemi per costruire un primo pezzo di un orfanotrofio in kenya, fra mille problemi, ostacoli, e impedimenti ce la sto facendo.
Mi ha tolto tanta energia farlo ma mi ha regalato tanta esperienza e soprattutto mi ha regalato persone splendide che si sono dannate per dare un aiuto a me e a i bambini. E’ stata dura ma alla fine mi ha dato il regalo più bello, scoprire l’umanità di certe persone.
La vita toglie, perché deve dare qualcos’altro. A me ha tolto tanto ma ho avuto tantissimo indietro ed ogni giorno lo scopro con piacere, gioia e commozione.
Non ho rimpianti, ma un solo rimorso : che mio padre non sia qui a vedere come io sia diventata nel bene e nel male e come sia bella la vita nel bene e nel male ma senza il suo gesto, forse io non sarei qui. Quindi ringrazio la vita, perché ho imparato e sto imparando ma dico anche: Grazie Papà.

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Malindi 15 luglio 2010 ore 21. 47 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)
Emmanuel solo 10 anni
Emmanuel ha  10 anni, è magrolino ma dinamico e forte. Ama fare karaté come suo papà. Ha il mito di Bruce Lee e con l’aiuto di Paolo, mio marito, sta imparando a far roteare un bastoncino di bambù come si fa con i “nunchaku” e qualche nozione base di difesa personale. Mentre si allena è molto fiero di sé, concentrato e serio con lo sguardo fisso verso Paolo, mentre svolge i movimenti lenti.
A prima vista in mezzo ai tanti non lo noti, 35 bambini sono tanti, ancora dopo 4 anni e passa, di frequentazione con questo gruppo allegro e chiassoso, facciamo fatica a ricordarci i nomi di tutti.
In passato qualche notizia su qualcuno di loro la abbiamo ricevuta da Christopher ma  in mezzo a tante tristi storie, la similitudine di destino di molti di loro, te li fa confondere : “la mamma è morta, non ha il padre”, “era malato è morto”, “aveva l’aids”, “beveva”, ”era una prostituta”, “la nonna è troppo vecchia per occuparsene”, “è finito in carcere il suo unico genitore e non ha nessuno a casa che si occupi di lui”, insomma in questo desolato elenco si faceva fatica a ricordarsi il passato di tutti.
Ma in questi giorni mi sto mettendo a fianco uno di loro a turno per scrivere qualcosa su le loro vite e sto imparando a conoscerli meglio. Allora a fatica con alcuni di questi, iniziamo scrivendo la loro età, cosa amano studiare, il loro piatto preferito, come vanno a scuola, cosa vorrebbero fare da grandi, quanto tempo fa sono arrivati al Leamwana.
Piano, piano ci avviciniamo ai ricordi, al momento di quando si sono separati dalle famiglie. “Cosa provavi?” Qualcuno si ricorda, qualcuno no, qualcuno dice che era felice da subito, qualcuno invece dice che è felice ora, sottintende che all’epoca non lo era, mi chiedo io?
Con molti bisogna ripetere con calma e dolcezza le domande più volte, ancora dopo 4 anni che ci conoscono e molti mesi che li frequentiamo assiduamente, si vergognano, un po’ per carattere e un po’ per educazione, sono poco abituati a parlare di sé e soprattutto credo con un muzungu(bianco).
Invece con pochi altri ma soprattutto con Emmanuel, semmai si ha la situazione opposta.
Lui è un fiume in piena, parla, si spiega, ricorda. Che piacere, pensavo ieri, mentre parlava con emozione e con la voce carica di dolcezza di come si ricordava di sua madre e di come lo amasse molto. Mi ha raccontato un pezzo della sua vita, dei suoi ricordi. Di sua madre e di suo padre, fiero, mi spiega che lavorava per la compagnia dell’elettricità ma che ora non lavora più. “Non si può occupare più di me e anche mia nonna è troppo anziana!”. Semplice e diretto spiega che quindi è arrivato qui ma si è subito trovato bene, perché mangia regolarmente e dorme in un letto anche se lo deve dividere con un altro bambino ma soprattutto e ci tiene a sottolinearmelo, qui gli danno la possibilità di studiare come amava fare suo padre e lui vuole studiare tanto per diventare un soldato.
Mamma mia, penso io, spero proprio di no! Provo a chiedergli “come mai pensi a questo lavoro, per le armi forse?Ti piace giocare  alla guerra?” “No, assolutamente ma io voglio servire il mondo se ce ne fosse bisogno!”.
Il tempo di tornare a casa è arrivato allora lo ringrazio e gli dico che continueremo domani. Lui è felice, perché a potuto dirmi tante cose e me lo dice pure.
Oggi quindi quando sono arrivata e mi sono seduta iniziando a scrivere con una delle bambine e a rispondere con dei bambini a qualche mail dei loro sponsor tra i miei amici, vedevo che mi ronzava intorno e spesso mi faceva domande o mi correggeva mentre scrivevo. Così dopo aver finito alcune cose e visto che rimaneva ancora vicino a me abbiamo ricominciato a parlare. Siamo partiti da Paolo, mi ha chiesto “dove va tutti i pomeriggi?” e così gli ho spiegato che lui non è stato fortunato quando era più piccolo e non ha potuto studiare le lingue e quindi ora gli tocca imparare con più fatica. Così lui mi dice che sa di essere fortunato perché al Leamwana può studiare cosa che a casa non gli sarebbe stato possibile fare.
“Sai Emmanuel è molto bello quello che dici, hai avuto una vita un po’ difficile, è vero ma i problemi possono essere occasioni per capire delle cose della vita e anche se hai vissuto cose brutte ce ne sono altre per le quali puoi considerarti comunque fortunato!”. “Sì ringrazio Dio” mi dice e da quel pensiero, come un fiume in piena mi ha raccontato i tasselli sulla sua vita che mi mancavano.
Prima che morisse sua mamma avevano una bella casetta, anche se di fango e pietre e mangiavano bene ma i vicini gelosi li hanno denunciati alla polizia raccontando bugie e cose brutte su di loro. Si ricorda che sono arrivati i poliziotti e gliel’ hanno distrutta, buttandola giù. Suo fratello ha cercato di impedire lo scempio, il padre non c’ era, così lui e sua mamma sono dovuti scappare nella foresta, mentre suo fratello è fuggito lontano. Quando, finalmente il padre li ha ritrovati li ha fatti rimanere nascosti anche se non ha mai saputo perché e così lui ha perso diversi mesi di scuola.
Molto probabilmente l’intervento della polizia era stato scatenato da lotte di pulizia etnica tra tribù, le quali spesso sono successe e forse ancora accadono in certe parti del paese, senza che nessuno lo sappia.
Dopo che si erano nuovamente riuniti, non era ancora momento di stare tranquilli, il fratello, il quale era tornato dopo molto tempo, probabilmente dopo molti mesi, avendo frequentato brutte compagnie, “si era trasformato in un diavolo”. Così dice lui spalancando gli occhi, “era drogato?” gli chiedo io e lui annuisce. In un altro soffio mi dice che suo fratello ha cercato di ucciderlo e che lui se lo ricorda molto bene mentre è stato salvato dalla madre e solo per fortuna. Il padre tornato a casa e scoperta la malefatta ha cacciato quindi l’altro suo figlio, il fratello Caino.
Sembrerebbe già tanto per un bambino ma si vede che la vita anche per lui ha deciso di accanirsi. Sopo poco, una caduta massi da una collina travolge delle persone, tra le quali c’e anche sua madre, dopo una lunga malattia, forse un coma, gli viene così portata via l’amata mamma.
Il padre rimasto solo, con un lavoro che lo porta spesso lontano e senza poterlo affidare a nessuno, decide di trasferirsi dalla nonna . Il destino non è ancora soddisfatto abbastanza e così poco dopo, un incidente sul lavoro rende il padre di Emmanuel invalido tanto che è destinato ad usare le stampelle a vita. Così è stato deciso, per il bene del bambino di portarlo al LeaMwana per essere accudito e seguito con cura, dove i pasti sono garantiti, la scuola privata è una realtà e la vita per lui si auspica migliore che se fosse rimasto a vivere a casa con il padre oramai senza lavoro e senza soldi.
A questo punto del racconto, il suo respiro si era fatto corto e il petto si alzava e abbassava velocemente, i suoi occhi hanno cominciato a riempirsi di lacrime e a quel punto me lo sono tirato vicino e l’ho abbracciato forte. L’ho coccolato come si fa con i bambini piccoli e l’ho cullato e gli ho detto che poteva piangere e liberarsi. Così è stato.
Poi gli ho sussurrato che è fortunato, perché sarà un uomo forte e buono e potrà aiutare gli altri, perché sa cosa sia la dura vita ma sa anche che ha avuto la fortuna di incontrare persone che si occuperanno di lui e che gli vogliono bene.
Emmanuel ha solo 10 anni e una vita dura ed intensa alle spalle.
Ma per esperienza diretta so per certo che ce la farà.

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Kim ha 11 anni e frequenta la 5°. È stato affidato alle cure del Lea Mwana per i gravi problemi di denaro in cui versava la mamma, che non le consentivano di provvedere al suo sostentamento. Ha solo lei ed in un anno è riuscita a vederla solo una volta a causa della grande distanza. A Kim piace stare al Lea Mwana, perché si rende conto che qui può studiare in maniera adeguata: le sue materie preferite ? Scienze e matematica. Gli piace studiare molto perché animato da un senso di patriottismo nei confronti della sua terra. Parla molto bene e conosce approfonditamente la storia della sua nazione; è molto sveglio e spero (commento personale) che possa diventare un maestro.
I suoi cibi preferiti sono ugali (per l’energia), pesce (per la struttura corporea) e banane (perché protettive). I commenti tra parentesi sono le motivazioni da lui stesso date. Gli piace il ballo doping-dancing stile Michael Jackson.

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Malindi-Muyeye 13 luglio 2010

Prima che aprisse LeaMwana, Carolyn arrivò nella famiglia di Agnes e Christopher; aveva solo 7 anni. Perse il padre per un incidente d’auto che era molto piccola; sua madre essendo molto giovane e con un altro figlio non poteva occuparsi di lei e quindi la diede alle cure di Agnes e suo marito. Nel frattempo suo fratel…lo morì per malattia e sua madre incominciò a bere e le cose andarono peggiorando così che Carolyn restò al LeaMwana (che nel frattempo avevano aperto la struttura). Sfortunatamente questa settimana sua madre è morta per malattia. Così Carolyn ora è sola completamente. E’ una bella ragazza di 13 anni è responsabile con gli altri bambini più piccoli, ama studiare ed ovviamente è una brava scolara tanto che vorrebbe diventare un dottore per aiutare gli altri.
A febbraio 2011 andrà al liceo, una scuola più cara rispetto alle medie, il costo annuo per la retta della scuola sarà di 500€. Più persone e famiglie potrebbero diventare insieme sponsor per i suoi studi, donando 100€ a famiglia per un anno.

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Malindi 7 luglio 2010 ore 21.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)
LeaMwana Agnes prima dell'incidente
Nell’ufficio di Cristopher guardavo la foto di Agnes ha la mia età o forse un anno di più. Ha gli occhi profondi e dolci, è sua moglie. Hanno tre figlie, una di 15 ed una di 12anni molto diverse fra loro entrambe però molto educate e responsabili, poi c’e l’ultima di soli 3 anni, Zanella. In assoluto la più buffa e allegra di tutte, canta e balla tutto il giorno e poi parla in una lingua tutta sua che solo i suoi parenti, ovviamente, riescono a comprendere. Ha un carattere forte e un po’ ribelle se si mette in testa qualcosa niente e nessuno la fa desistere. Negli anni passati, piccolissima era portata sulle spalle a turno dalle bambine dell’orfanotrofio e veniva accudita da tutti loro come una sorella minore. Spesso, per non dire sempre, lei era presente, nelle nostre gite con i bambini. Anche le altre due figlie di Agnes e Christopher fanno parte del gruppo, sono sempre insieme a tutti i bambini e i ragazzi del LeaMwana.
Spesso rimangono da sole a controllare i loro “fratelli”e nel passato mi chiedevo osservandole,chi fosse la loro madre. Le bambine erano appunto frequenze fisse al LeaMwana e se arrivavo senza avvisare, una correva a casa lì vicino a chiamare il padre, il quale, spesso sempre e solo lui, arrivava con Zanella sulle spalle. Conoscendo Christopher, pur riconoscendogli carattere e uno spirito di organizzazione eccezionale non me lo vedevo ad educarle da solo, mi chiedevo chi e dove fosse la moglie e senza voler entrare troppo nel suo privato gli chiedevo semplicemente in generale della famiglia e lui sempre sorridente mi rispondeva “bene, bene sono a casa”. Ero curiosa di sapere come facesse questo uomo da solo ad organizzarsi con 3 figlie ed altri 35 bambini da accudire. Sapevo che la moglie lavorava nel campo dell’educazione, perché 3anni prima mi aveva detto che appunto lavorava part time in un asilo e quindi me la ero sempre immaginata presa con altri bambini da un’altra parte. In questi anni quindi LeaMwana era per me rappresentato da Christopher e basta. Qualche tempo fa, arrivando al LeaMwana, dopo una delle nostre gite, entrando lentamente nel piccolo cortile sabbioso, noto una signora seduta su di una sedia, ha una postura strana un po’ rigida, indossa uno scialle arancione sulla testa, penso che sia tipico di certe musulmane che si coprono solo la testa, intravedo in lei un sorriso e Amani, uno dei piccoli che sponsorizziamo, sussurra “ecco la signora”. Questa signora un po’ con fatica si alza dalla sedia e mi si avvicina lentamente, noto subito che c’è qualcosa che non va nel suo viso, le braccia e le mani hanno una postura strana. Realizzo in un attimo che ha vistose bruciature in faccia e sugli arti. La signora è ustionata, vecchie ustioni, oramai cicatrici che la legano nei movimenti e la rendono rigida nella postura.
Mi viene incontro e mi chiede se sono Gaia, rimango un po’ interdetta, Amani al mio fianco risponde per me, e lei mi butta le braccia al collo, mi tira a sé e mi stringe in un abbraccio. Sento le sue braccia piegate rigidamente in un’angolatura strana, io sono più rigida di lei, dalla sorpresa, non capisco cosa stia succedendo e chi essa sia. Ma lei senza capire i miei pensieri comincia a parlare e mi dice che mi ringrazia che i bambini parlano sempre di me, che Christopher gli parla da anni di Paolo e Gaia e che finalmente ci può vedere. Dopo pochi minuti capisce che io la guardo con un grande punto interrogativo dipinto sulla faccia e allora mi chiede: “ma sai chi sono io?” la guardo, mi sforzo di capire, mi sembra un viso noto, lo sguardo mi dice qualcosa ma sono certa di non averla mai conosciuta e poi di botto mi risponde con un largo sorriso che mette in mostra ancora di più le cicatrici che le incorniciano la parte bassa dal viso e mi dice. “sono Agnes la moglie di Christopher!”.
Non riesco a capire, la guardo e non riconosco la donna di appena 35-36 anni che dovrebbe essere, non corrisponde all’idea di donna che avevo, che guardavo nella foto nell’ufficio di Chris. Riesco a dissimulare il mio sgomento, faccio la svampita e comincio a parlare in generale dei bambini, con una scusa mi allontano e mi trascino via con me Amani, girato l’angolo lo blocco e lo riempio di domande su di lei, lui, sulle bruciature, su tutto. Amani con voce bassa e incerta risponde a tutto ma le sue risposte non sono abbastanza approfondite per me quindi lo liquido ringraziandolo. Torno indietro nel cortile e leggo nella faccia di Paolo rimasto da solo in piedi sotto il portico, le stesse mie domande, che intanto guarda interrogativo, il nostro guidatore di tuc-tuc che parla fitto fitto con Agnes e si abbracciano e lui sembra commosso e felice. Mi avvicino al gruppetto e chiedendo scusa, saluto Agnes promettendole di rivederci presto e ce ne andiamo verso il tuc tuc per tornare a casa.
Appena pochi metri dopo il LeaMwana sia io che Paolo ci proiettiamo in avanti verso la grata che ci separa dall’autista e lo tempestiamo di domande e così dopo anni di “buchi”, e di nostra inconsapevolezza, la storia di Agnes riaffiora dalle parole e dai ricordi di Mohamed il guidatore di tuc tuc.
Agnes, due anni e mezzo prima era a casa con la piccola Zanella che aveva pochi mesi, era stanca ma era ancora bellissima dopo la terza gravidanza che l’aveva un po’ affaticata e tenuta lontana dai suoi bambini dell’orfanotrofio che gestiva insieme a suo marito. Quella domenica aveva passato la mattina al LeaMwana con i bambini e vedendo rientrare Cristopher dopo una partita di calcio mentre lui stava facendo una doccia, voleva riscaldargli il pasto. Questo è l’ultimo ricordo di Agnes.
E’ quello che racconta a tutti in questi giorni che è ritornata a stare al LeaMwana. Poi più nulla e si risveglia in ospedale, con la parte alta del corpo, braccia comprese trasformate in dolorosissime profonde piaghe date dalle vampate di fuoco che l’hanno avvolta nella frazione di qualche secondo mentre scaldava su di un braciere il pranzo del marito.
Di quella foto dove si vede una donna affascinante con un bellissimo viso, guardandola oggi non rimane quasi più nulla, ma i suoi occhi forti, dolci e profondi sono ancora lì a testimoniare che la persona che era e che è ancora dentro esiste, forte e determinata a riprendersi la sua vita e i “suoi” bambini.
Se Cristopher era già per noi un mito prima, sapendo ora, che per anni non si è mai lamentato, mai sfogato di quello che aveva colpito lui e la sua famiglia, vedendo poi come ha continuato imperterrito ad occuparsi dei bambini e della sua famiglia, aumenta la stima per lui. Avendo conosciuto anche Agnes e la sua storia l’ammirazione per entrambi è alle stelle e questo ci serve e ci è servito per crescere e per gestire nostre situazioni e piccole sventure con ancora più coraggio e perseveranza.
Agnes tornerà nei miei post perché è uno spunto di vita eccezionale, che dovrebbe essere d’esempio per molti che si lamentano per meno, molto meno.

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I bambini del LeaMwana-Children of LeaMwana

Costruire con la tecnica delle balle di Paglia-Building with the strawbales technique

Perché usare le balle di paglia?

Per diversi, tanti motivi che qui di seguito elencherò, ma solo dopo una breve introduzione sull’origine di questo metodo.

Costruire con le balle di paglia è una tecnica nuova, anche se antica che risale ai pionieri di fine novecento in America, i quali, sprovvisti di legname, mattoni e cemento, dovettero adattarsi a costruire i muri delle case con le balle di paglia.
Si accorsero ben presto che queste case isolavano dal freddo, dal caldo e anche dal rumore. Man mano nei secoli la tecnica è stata migliorata, regalando case solide e durevoli. Difatti dopo diverse generazioni, esistono ancora case, costruite con questa tecnica perfettamente funzionanti ed abitate.
Le domande ed i dubbi possono essere mille per chi legge la prima volta sull’utilizzo di questo materiale, ma per ogni domanda o dubbio, esiste una risposta e non solo teorica ma concreta e visibile nelle molte case costruite con questa tecnica in ogni parte del mondo.
Le case, erette correttamente, possono durare per secoli, certamente serve una buona ed ordinaria manutenzione come ovviamente vale per ogni tipo di costruzione!
Le forme da dare a queste case possono essere molteplici. Case dall’aspetto fiabesco come quelle irlandesi o scozzesi, con i tetti di paglia, o quelle in stile britannico con i muri bianchi attraversate dalle travi di legno scuro con il tetto in tegole grigie, fino ad arrivare a forme tonde, bombate, fantasiose con dei giardini sui tetti, o ancora dal gusto etnico con tetti bassi e piatti, oppure ancora in stile molto asciutto dai tetti spioventi ed alti tipicamente nordici o ancora dall’aspetto tradizionale mediterraneo, insomma anche dall’aspetto classico.

Leamwana e il nuovo orfanotrofio-The new Orphanage LeaMwana

Costruire ecologico-Ecologic building

Nel dettaglio, il perché usare le balle di paglia?

RISPARMIO
Il grano esiste in abbondanza in quasi ogni paese e parte del mondo. Da Nord a sud, da est a ovest della terra, si possono trovare campi di grano e dopo la mietitura rimangono sui campi le balle di paglia. Queste sono, di fatto un materiale di scarto e solitamente vengono usate per le stalle, in generale per gli animali e quindi hanno un prezzo molto basso. – Le balle di paglia ci sono in abbondanza e costano poco.
Il rivestimento dei muri con le balle di paglia, è una mistura di calce spenta, argilla, sabbia e paglia, che stesi in diversi strati rendono le case fresche d’estate e calde d’inverno. – Le case con le balle di paglia sono economiche, perchè significa risparmiare anche per il riscaldamento e il raffreddamento delle abitazioni.

SICUREZZA
Gli spessi muri di queste case regalano silenzio ed un ambiente ovattato. Grazie all’utilizzo di materiali naturali, visto che non si utilizzano, né vernici, né sostanze chimiche e tossiche per la salute, i muri respirano, rendendo l’aria sana e anti-allergica. – In queste case quindi non si annida umidità e aria malsana, sono più sane delle case tradizionali.
Le balle di paglia, rivestite opportunamente con la mistura di calce e argilla, resistono agli incendi più a lungo che le normali case in cemento; questo non viene detto “tanto per dire” dagli ingegneri e architetti che si occupano di edilizia in paglia in tutto il mondo ma è dimostrabile dagli esperimenti e test del fuoco, realizzati un po’ ovunque in Europa, i quali sono ufficiali e visibili con certificazioni e filmati. – Le balle di paglia, quindi sono sicure anche contro gli incendi.

ECOLOGIA
Le balle di paglia e tutti i materiali utilizzati per completarla sono naturali e non inquinanti. Se demolite, queste case non deturpano irrimediabilmente la Terra con gli scarti, tutto torna alla natura, tutto è smaltibile e nulla rimane ad inquinare dopo il nostro passaggio. – Le balle di paglia quindi sono eco-friendly.
Queste case sono solide ma leggere e ci si può permettere di costruirle su fondamenta differenti, utilizzando per esempio, al posto dei pilastri in cemento, dei copertoni di camion e gomme d’auto esausti. Questi materiali, insieme alla ghiaia, oltre ad essere riciclati ed economici, grazie anche alla leggerezza degli edifici, creano fondamenta elastiche e quindi case antisismiche. – Le balle di paglia e le fondamenta di copertoni esausti regalano case sane, ecologiche e sicure anche contro i terremoti.

ECONOMIA
Imparare a costruire queste case è più facile e rapido di quanto si creda, o possa pensare. Si possono seguire dei corsi in campo d’opera, ovvero in un cantiere per una casa, per la quale si organizzano dei gruppi di lavoro. Si va fisicamente a costruire, con le proprie mani una parte di un edificio, in giro per l’Italia o per il mondo ed esistono molti corsi ed esempi, già realizzati con enorme successo. I corsi possono durare da pochi giorni, per avere un primo approccio, oppure prolungarsi fino al completamento di una stanza, fino al tetto. Persone comuni, senza alcuna esperienza possono imparare a costruirsi da sé la propria abitazione e con l’aiuto di volontari ed amici si possono vedere i risultati per la propria casa dopo soli pochi giorni. Costruire questo tipo di casa è quindi possibile con l’auto-costruzione e con l’utilizzo minore di mano d’opera. – Questa tecnica permette quindi di economizzare su costi altrimenti molto elevati, perché affidati unicamente ad altri.

SOCIALMENTE SOSTENIBILE
Portare questa tecnica in Africa, per ora in Kenya, significherebbe tantissimo per diverse ragioni. Prima di tutto, grazie al materiale usato, ovvero la balla di paglia, essendo questa leggera, significa poter coinvolgere anche le donne, le quali possono partecipare per la gran parte della costruzione. In un paese come l’Africa, dove le donne sono in forte numero ma spesso senza un vero lavoro, significa poter dare forza e soprattutto know-how anche a loro. Perfino gli anziani e i bambini possono partecipare in alcuni dei passaggi, come per esempio l’intonacatura e l’eventuale decorazione dei muri e dei pavimenti. Le famiglie allargate e le ampie comunità locali potrebbero unirsi quindi per costruire insieme i propri villaggi. – Con questa tecnica potrebbero avere case migliori, perché solide, sane, durature, con un impatto ecologico minimo ed ovviamente con dei costi per i materiali bassissimi e di mano d’opera esperta pari a zero.

Ecco svelati i perché!

Per tutte queste ragioni, mio marito, la mia famiglia ed io, come singoli individui, senza alcuna ong o onlus alle spalle, con la sola collaborazione dell’associazione La Boa e dell’associazione EDILPAGLIA Italia, nella persona del suo presidente Stefano Soldati, inizieremo ad agosto il primo corso sul cantiere per il nuovo edificio dell’orfanotrofio, LeaMwana a Malindi, Kenya, il quale è interamente gestito ed amministrato da persone locali da oltre 4 anni.

Questo progetto dell’orfanotrofio LeaMwana, costruito con le Balle di Paglia, potrà essere il primo esempio, di una lunga serie, perché i diversi gruppi di volontari e corsisti, che verranno da Europa, Italia e soprattutto volontari del posto, dimostreranno che è possibile, tutti insieme imparare a costruire case, con un materiale povero, economico ma ecologico, grazie ad una tecnica valida ed utile soprattutto per la comunità locale.

Risultati ottenuti e da ottenere:

Ad oggi siamo riusciti a raggruppare 15 volontari kenyoti, i quali doneranno 15 giorni del loro tempo, rinunciando a lavorare, quindi a guadagnare e questo è uno sforzo enorme ed ammirevole per la realtà qui del posto. Queste persone, insieme ai corsisti impareranno a costruire le fondamenta, con i pneumatici ed una stanza 6 metri per 6, dal pavimento al tetto.

Il lavoro è ancora tanto da fare, i materiali si stanno recuperando, soprattutto abbiamo finalmente trovato nel nord del Kenya, a Navaisha ed Eldoret, diverse fattorie disposte a venderci a prezzi bassi le balle di paglia.
Il direttore dell’orfanotrofio sta cercando donazioni ed offerte da parte dei locali e soprattutto altri volontari per poter proseguire, successivamente ai corsi, l’ultimazione dell’orfanotrofio. Si sta insomma cercando di fare tutto con i fondi dell’orfanotrofio, piccole nostre donazioni e offerte locali.

Serviranno in ogni caso degli aiuti economici per sponsorizzare il trasporto delle balle di paglia, dal nord alla costa che sarà l’unica voce un po’ più costosa nel bilancio dei materiali.

Contiamo di trovare degli sponsor, magari attinenti al progetto eco-sostenibile che vogliano supportare oltre che l’ultimazione di questa struttura, l’inizio di altre strutture utili per la comunità.
Con lo sviluppo di questi corsi per questa tecnica, si potranno infatti creare, oltre a tutti i vantaggi sopra elencati, anche nuove identità di occupazione, ovvero nuovi lavori!

Questi quindi sono i molti motivi per i quali sto promuovendo la tecnica delle balle di paglia e confido in chi legge che capisca e che ci aiuti a diffondere questo nostro progetto e chissà, magari ci aiuti anche diventando uno dei tanti piccoli sponsor che stiamo già raccogliendo.

Per ulteriori informazioni e approfondimenti :
libro “Costruire con le balle di paglia” di Barbara Jones
siti web: http://www.laboa.org e http://www.edilpaglia.it

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Malindi 24 maggio 2010 ore 15.59 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

LeaMwana Children Center Care

LeaMwana realizzato con le balle di paglia.

Oggi qui a Malindi è una giornata fresca, un po’ grigia ma piacevole, dovrebbe essere il periodo delle piogge, dico dovrebbe, perché mi aspettavo piogge torrenziali per giorni interi e per una settimana di seguito, invece per ora ho vissuto solo improvvisi intensi acquazzoni che si alternano a pomeriggi assolati e cocenti. Nel frattempo ne gode la vegetazione che è un tripudio di decine di verdi scintillanti dai più tenui ai più intensi. I Baobab paiono avere una testa di ricci verdi, così carichi di foglie che mai avevo visto nei miei trascorsi qui. Le bouganville si allungano e si estendono ovunque con i loro rami carichi di foglie enormi e brillanti e l’erba é così fitta che ogni due giorni va tagliata.
Insomma il così tanto temuto ed orribile periodo delle piogge per ora si sta rivelando il momento migliore mai vissuto qui. Infatti in queste settimane, Malindi soprattutto si è svuotata totalmente, regalando un po’ più di calma e di silenzio a chi rimane. Certo i venditori ambulanti ed i negozianti si lamentano, qualcuno si dispera per i mancati guadagni ma i più si crogiolano al sole e si riposano aspettando i primi di luglio quando i primi turisti torneranno ad affollare, le vie e i negozi di questa caotica e chiassosa cittadina.
Approfitto quindi di una giornata un po’ più uggiosa per scrivere e aggiornare amici e parenti che mi chiedono di scrivere un po’ di più, bigiando le lezioni di inglese e kiswahili mi sono chiusa in veranda con lo sguardo sul giardino a mettere giù tutte le impressioni dolci ed amare raccolte in questi due ultimi mesi.
Come già ho scritto in un altro post, il mio cambiamento, il lento risveglio sta avvenendo, oramai ogni giorno mi sento sempre più lontana dalla marionetta che negli anni ero diventata e mi sento più libera di scoprire me stessa.
Quello che mi pareva un sogno, un film, ovvero di aiutare i bambini dell’orfanotrofio del LeaMwana sta incominciando a prendere forma.
Le adesioni per il corso per imparare a costruire una casa con le balle di paglia stanno arrivando.
Costruiremo o meglio inizieremo a costruire il nuovo orfanotrofio con la tecnica delle balle di paglia. Un metodo nuovo anche se antico che risale ai pionieri in America che sprovvisti di legname dovettero adattarsi a costruire le case con le balle di paglia, si accorsero ben presto che isolavano dal freddo e dal caldo e anche dal rumore. Man mano la tecnica si affinò e ad oggi esistono ancora case perfettamente funzionanti ed utilizzate costruite con questa tecnica nel Nevada.

Le domande saranno mille nella testa di chi legge per la prima volta di questo materiale, ma posso assicurare che le mie mille, anzi no, miliardi di domande poste hanno avuto risposte esaustive ma soprattutto hanno avuto conferme esistenti. Le case stanno in piedi per secoli, ovviamente con una buona costruzione alle spalle ed una manutenzione ordinaria(ma questo dovrebbe valere per tutte le costruzioni).
Le balle di paglia e tutti i materiali utilizzati sono naturali e non inquinanti, non deturpano irrimediabilmente la Terra, se si abbattono queste case, tutto torna alla terra, tutto é smaltibile, nulla rimane irrimediabilmente ad inquinare dopo il nostro passaggio. Le balle di paglia sono eco-friendly.
Inoltre le balle di paglia, propriamente rivestite di una mistura di calce spenta e argilla in diversi strati, rendono le case fresche d’estate, calde d’inverno e soprattutto non si annida umidità e aria malsana, quindi sono più sane delle case tradizionali e anche più economiche nella manutenzione e gestione.
Rivestite opportunamente resistono agli incendi molto più a lungo che le normali case in cemento e questo non lo dicono tanto per dire gli ingegneri e gli architetti che si occupano di case in paglia ma lo dimostrano con esperimenti e test del fuoco ufficiali, realizzati un po’ ovunque e dimostrabili con certificazioni e video.
Le case sono silenziose, l’ambiente è ovattato all’interno e già dalla prima impressione percepisci che è sano,questo dato che non si utilizzano né vernici, né sostanze chimiche e tossiche per la salute.
Se costruite su fondamenta particolari, utilizzando copertoni (gomme per auto e camion) dismesse e ghiaia, diventano anche antisismiche. Il terremoto dell’Aquila ha un esempio citato sul sito :www.laboa.org.
Le forme da dare a queste case possono essere molteplici, da quelle dall’aspetto fiabesco, come le case coi tetti di paglia irlandesi o scozzesi, a quelle più in stile britannico con i muri bianchi e le travi di legno dipinte di scuro e il tetto in tegole grigie, fino ad arrivare a forme tonde, bombate e fantasiose dal gusto etnico e caliente dell’argentina con i tetti bassi e piatti, oppure ancora in stile molto pulito e asciutto dai tetti spioventi ed alti dal gusto nordico o ancora con uno stile tradizionale mediterraneo insospettabilmente dall’aspetto classico.
Imparare a costruire queste case è facile e rapido, si possono infatti seguire dei corsi in campo d’opera, ovvero in un cantiere.
Si va fisicamente a costruire, con le proprie mani, una casa e i corsi possono durare da pochi giorni, per avere un primo approccio, oppure prolungarsi fino al completamento di una stanza fino al tetto.
Lo spirito che mi ha subito affascinato, essendo donna, che le “femmine” non vengono respinte e guardate con sospetto e sufficienza per voler svolgere lavori di solito attribuiti solo agli uomini, anzi non solo sono ben accolte ma sono considerate alla pari e parte integrante del progetto, perfino persone anziane e bambini possono partecipare in alcuni dei passaggi, come per esempio l’intonacatura e l’eventuale decorazione dei muri e dei pavimenti.
Lette tutte queste cose prima sul sito : http://www.laboa.org di Stefano Soldati e poi sul libro di Barbara Jones, “Costruire con le balle di paglia”, ho deciso con la mia solita entusiastica intraprendenza, vista da molti a partire da mia madre con ironia e incredulità nel risultato, di contattare direttamente colui che mi aveva ispirato fiducia. Così ho scritto una mail a Stefano Soldati, sul mio progetto in Kenya. Gli ho illustrato il nostro progetto di trasferimento, della mia idea di costruirmi una casa con questa tecnica per non inquinare e non deturpare ambiente e natura ma soprattutto per sperimentarla prima sulla mia “pelle” e poi procedere, una volta visti gli eventuali problemi, costruendo l’orfanotrofio LeaMwana, per il quale nutrivo tanto interesse nell’aiutarlo da diversi anni ma alcuna risorsa economica sufficiente. Gli spiegavo che con questa tecnica saremmo riusciti almeno ad iniziare i lavori e poi chissà a trovare i finanziatori e poi i volontari e blablabla….. e la mia mente, la mia fantasia e la mia volontà di aiutare volavano sulle punte delle mie dita che digitavano veloci le parole…. e mentre scrivevo questa mail mi dicevo che forse, anzi di sicuro, mi avrebbe considerato un po’ matta, un po’ fuori dal mondo, una di quelle che si esalta come un bambino, senza rendersi conto dei limiti. Si vede però che anche Stefano deve essere un po’ matto o non so cosa, perché invece che cancellare la mia mail, o rispondermi evasivo, o mettermi davanti a delle problematiche insormontabili, facendo così crollare il mio entusiasmo, mi ha risposto che potevamo iniziare subito dall’orfanotrofio e intanto rispondendo a tutte le mie domande angosciate (la pioggiaaaaa durante il periodo delle piogge!!!???-quale pioggia? Piove più in Scozia a confronto!) e ai miei mille dubbi, mi stava concretizzando il sogno davanti agli occhi, i qauli si sono riempiti subito di lacrime. Ero emozionata.
Qualcuno mi dava retta, qualcuno voleva provare questa avventura senza dire subito: “non si può – è follia”.
Forse c’è davvero del folle in questo progetto, ma senza la follia positiva, mi chiedo che sarebbe la mia vita ora e quella di molte altre persone!!?
Ora sono qui, in questa terra che sento mia come non mai, a chiedermi come fare a divulgare questo mio progetto, come faccio a trovare tanti folli positivi come me,mio marito e Stefano e coinvolgerli in questi corsi?
Come faccio a far comprendere alle persone che i sogni si possono far esistere davvero ma soprattutto che la realizzazione di questi è possibile, solo se ci si mette insieme a più persone con tutto il cuore, la felicità e la fiducia ?!!
Si possono aiutare delle persone, dei bambini orfani, solo se si vuole davvero.

Nulla è impossibile. Nulla è impraticabile.
Le prime adesioni stanno arrivando ma ne servono ancora e molte di più!
Cerco persone curiose, di ogni estrazione sociale e cultura che vogliano sperimentarsi nell’imparare qualcosa di nuovo ed utile per loro ed allo stesso tempo un aiuto per dei bambini, per avere una casa migliore dove vivere.
Io pagherò il corso per me, per mio suocero che ho in pratica forzatamente reclutato(ma questa chiamata, sono sicura l’ha accolta con piacere) e per due persone del luogo, dei locali, così che il know-how non si disperda e con i quali potremo poi continuare a lavorare a questo progetto ed io spero a molti altri.
Spero che questo primo mese di corsi sia solo il primo di una lunga serie.
Spero che questa esperienza porterà conoscenza su una tecnica nuova, con materiali ecologici e poco costosi e che potrà aiutare non solo gli occidentali a costruirsi case di nuova ideologia e concezione eco-friendly ma anche le popolazioni locali più povere, che potranno costruirsi case più solide e durature con minor costi.
Spero e desidero che tutto ciò avvenga e chiedo anche il vostro appoggio, aiuto, anche solo diffondendo il link del mio blog, inoltrando il testo in una mail a degli amici, chissà che fra loro non ci sia qualcuno che possa essere interessato!?
Non metto mai limiti alla potenzialità delle persone.
Per questo credo nel progetto dell’orfanotrofio LeaMwana costruito con le Balle di Paglia.

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Malindi 5 marzo 2010 ore 18.40 ora locale (Italia -2ore)

Domenica africana, calda ma ventilata, abbiamo deciso di andare in spiaggia e portare con noi solo alcuni dei bambini del Lea Mwana per passare la giornata e fare il bagno. Quando li portiamo tutti insieme diventa faticoso parlare bene e con calma anche solo con uno di loro, i pensieri e i concetti che loro vorrebbero esprimere e che io vorrei passargli si perdono nel chiasso e nelle risate del gruppo. Quindi a malincuore abbiamo fatto una selezione, è brutta la parola ma vanno presi così, per piccole unità.
Con noi c’erano Nassib, Albert e Amani, di 8, 10 e 13 anni che abbiamo “adottato” noi, poi Eric, Eddy e Antony, di 9 e 8 anni che sono stati sponsorizzati dai nostri amici Gloria, Giovanni(detto Gufo) e Rita, infine Abubakar 11 anni che è “figlioccio” oramai nostro ma è stato anche lui adottato dalla nostra amica Giovanna e famiglia.
Con questa allegra ma silenziosa brigata siamo andati sulla bellissima spiaggia di Malindi vicino al molo; vi si accede direttamente dal pieno centro caotico e trafficato della cittadina e quasi non lo diresti nella calma e nel silenzio sterminato di questa spiaggiona.
Mi rallegro quando li guardo felici nel loro coraggioso tentativo di nuotare, nuotare si fa per dire, sembrano dei paperi in cerca di pesci sul fondo, sempre col sedere in sù e con la testa ficcata verso il fondo, mentre le braccia ai lati roteano furiosamente per cercare di stare a galla e allo stesso procedere nelle onde. Vivono a 5 minuti dal mare ma non sanno nuotare.
Non vedo l’ora di poter stare nella casa che abbiamo affittato dal 1° di aprile, dove c’è la piscina, così da insegnarglielo.
Nel frattempo mi accontento di portarli con me in mezzo alle onde in pochi centimetri d’acqua.
Dopo un’oretta di annaspamenti siamo tornati verso i lettini e gli ombrelloni in makuti (fatti con le foglie di palme di cocco sfrangiate) della spiaggia privata del Melinde (hotel in pieno centro di Malindi) e a quel punto ho affrontato con Albert lo spinoso argomento dei suoi bassi voti che ho ricevuto ieri da Christopher via mail.
Non va bene su nessun fronte e non capisco come mai.
Albert è un piccolo bambino di 10 anni, appare di fisico come uno di 6 e pure un po’ mingherlino. Di testa purtroppo non so capire molto come sia davvero, visto che davanti a me, a noi è timidissimo, non apre bocca quasi mai e il fatto che non parli ancora bene inglese non ci aiuta nel comprenderlo appieno.
Pur avendo 10 anni frequenta la seconda elementare, perché è stato accolto nella struttura solo 4 anni fa e non era assolutamente in linea con le conoscenze normali dell’età, non parlava praticamente kiswahili, né tantomeno inglese, a 6 anni quindi ha iniziato i 3 anni d’asilo che sono previsti qui per avere le basi di kiswahili e quindi in questo periodo ha fatto passi da gigante ed ora si trova in seconda elementare.
Mi sono messa con lui a fare e rifare i numeri, prima scritti in cifra e poi facendoglieli scrivere prima in inglese e poi in kiswahili. E’ intimorito, bloccato sembra a volte come ritardato ma se lo guardi in faccia, mentre si sforza nel pensare e dare la risposta giusta gli vengono dei tic sotto l’occhio sinistro e così capisci che è solo nervosismo, sicuramente ha delle lacune, di sicuro sa di essere indietro e quindi s’innervosisce bloccando come tutta risposta il suo cervellino insicuro.
Mi si stringe lo stomaco e mi viene su un magone che mi riempie gli occhi di lacrime ma resisto, ingoio aria e cerco di non pensarci, mi do un contegno da maestrina dolce ma ferma e continuo decisa nel chiedergli di rispondere.
Alla fine dopo 2 ore di tentativi, ragionamenti su come si arriva a 100 e su come a 134, sia in inglese che in kiswahili, dopo numerosi incitamenti e discorsi su come lui sia intelligente e non ci sia nulla di male a non sapere o a sbagliare, Albert era felice di aver dimostrato che era capace di comprendere, leggere e scrivere senza fare errori. Soprattutto era felice che nessuno l’avesse sgridato. Non te lo dimostra raccontandotelo o spiegandosi ma il suo sguardo diretto e fisso nei miei occhi e l’assenza dello spasmo sotto l’occhio parlano e spiegano più di mille parole.
Arriva il momento di tornare a casa per tutti, ovunque e qualunque sia la casa in questo momento, per loro un orfanotrofio e per noi un appartamento in affitto. Carico i 7 bambini con me su di un tuc tuc e mi avvio al Lea Mwana, nel tragitto abbiamo parlato della giornata e abbiamo anche discusso su come sia importante credere in noi stessi e nei nostri obbiettivi, discorsi filosofici sull’autostima, forse troppo sconfinati per delle testoline di bambini così piccoli e così indifesi poco abituate a ragionare fuori da rigidi schemi di disciplina e studio. Troppo lunghi anche per essere digeriti in pochi kilometri traballanti di tragitto, a qualcosa serviranno, intanto è un inizio, mi dico e sull’entrata del cortile, li faccio scendere e li guardo mentre rapidi entrano uno in fila all’altro senza quasi voltarsi, senza dire ci vediamo, s’infilano dentro nella stanza buia e poi quasi timidamente qualcuno rispunta col naso fuori a vedere se sono ancora là. Alzo la mano, li saluto lentamente :“Tutaonana kesho”(ci vediamo domani) e faccio segno al guidatore di fare retromarcia. Il sole è basso su di un cielo rosa e quasi sembra accarezzarti  gli occhi, per un attimo mi estraneo ma subito rientro nella realtà mi guardo intorno mentre l’ape piaggio mi riporta a casa veloce e saltellante sui dossi e fossi delle strade dissestate di Mujeje, quartiere sconfinato e poverissimo di Malindi,  forse è più idoneo chiamarlo per quello che è :una baraccopoli alle porte del centro, con casupole fatiscenti, pochi edifici in pietra e cemento assenza di strade vere con spazzatura e fogne a cielo aperto. Mi guardo intorno come se qualcuno mi avesse tolto un velo pesante dagli occhi e mi rendo conto cosa questi bambini vedono tutti i giorni. Distese di spazzatura ovunque, sacchetti di plastica che giacciono incastrati in ogni dove, galline, vacche e capre a razzolare in mezzo a questi ed altra spazzatura come se fosse normale. Un paesaggio desolato, brutto, sporco indescrivibile credo con le parole e forse anche con una foto che non rende abbastanza l’abruttimento del luogo.
Mi sento piccola, inerme, schiacciata da questa inevitabile realtà: non posso fare abbastanza non sono sufficientemente potente per risolvere questo.
Per un attimo mi sento che mi manca il fiato per il pianto che sta arrivando come in piena, mi chiedo, cosa sto a fare qui ma a cosa servo?Dove credo di andare e chi credo mai di essere?
Sono un’illusa, una scema ragazzina che crede nelle utopie invece che una donna matura consapevole dei propri limiti. Non posso nulla a confronto di tutto questo squallore.
Mi sento sconfitta.
Poi mi ricordo dello sguardo di Albert e mi dico, però oggi hai forse instillato un po’ di autostima ed orgoglio in uno di loro, l’ha visto felice e sentirsi meglio.
Sono pari, sono uno pari con questa vita di merda.
Per ora va bene così.

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