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Malindi 8 luglio2010 ore 16.40 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Nella prima puntata di “Paese che vai” raccontavo di come spesso si vedano in moto 3 o anche 4 persone per volta, (appena riuscirò ad immortalarne un esempio non mancherò di pubblicare la foto), ovviamente senza casco, tralasciavo di scrivere che anche quando è solo il guidatore a bordo, spesso non indossa il casco il quale viene appoggiato a mò di decorazione in mezzo alla forcella. Utile mi viene da pensare, se cade, la moto non si farà male!!!!
Qui gli esempi umani alla guida di un qualsiasi tipo di automezzo potrebbero essere spunti filosofici di come vedono e vivono la vita.
Ci sono gli “ignari del pericolo”, i quali sfrecciano in moto senza casco appunto, guidando con incertezze, tentennamenti ed ondeggiamenti degni di un principiante in bici per la prima volta senza le rotelle, che si armano di un’unica certezza, ovvero quella che non si faranno mai male, in mezzo a tir, camion, matatu e macchine, degno di Napoli o Roma nell’ora di punta.
Si vedono poi i tuc tuc, che sarebbero i taxi per le persone, che trasportano ogni tipo di bene e cosa, loro sono “gli ottimizzatori” riescono ad impilare dai 5-6 pneumatici di camion incastrati alla meglio, o un letto smontato o una pentola enorme da 30 persone e anche ogni di tipo di animale…d’altronde, si diranno i guidatori dotati di senso pratico e pragmatico, se trasportiamo certa gente, possiamo anche trasportare delle bestie!Infatti capita spesso di vederci sù delle capre che fuori per metà, puntate con le zampette anteriori sulle sponde laterali,si sporgono baldanzose, con il muso teso in alto, le orecchie sventolanti e il labbro rialzato dall’aria, godendosi una nuova vista e un senso di libertà momentaneo prima di una brutta fine.

Poi ci sono i famosi carretti, incubo di tutti gli automobilisti, tirati invece che da muli a 4 zampe, da quelli a due…ecco questi sono i migliori. Loro sono “i sognatori”. Ti può capitare spesso, di dover frenare bruscamente appena girata una curva, dato che ti trovi, così banalmente, un 4 metri di tronchi striscianti per terra trascinati da uno di questi carretti. Questi si azzardano infatti a trasportare oggetti di ogni tipo che possono anche superare di 3 volte la loro dimensione e lunghezza, sprezzanti del pericolo come i motociclisti e fantasiosi ed intrepidi più che i “cugini guidatori di tuc tuc”, mentre superi il trainatore, perché è più giusto chiamarlo così e lo guardi con aria interrogativa, lui ti risponde guardandoti con una faccia serafica e calma come se fosse la cosa più normale di questa terra, lui d’altronde sognava di guidare un tir!
Infine quello che ho adorato di più è invece lo “stra-previdente”, questo tipo piacerebbe ad ogni mamma apprensiva della terra! Ne sono certa.
Dopo gli esempi sopra citati, uno che legge questo post si potrebbe fare un’idea di guidatori soli sprovveduti e sprezzanti della vita e invece no,ne esiste un altro tipo! Questo ha deciso che la sua pelle vale molto ma molto di più e quindi si premunisce, dato anche i guidatori suoi concittadini così incauti, che pur guidando solo una bicicletta è meglio munirsi di un casco ma non quello classico, troppo poco si è detto e allora eccolo con indosso addirittura un casco di una moto!!!

E’ proprio vero che paese che vai…

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Malindi 9 luglio 2010 ore 14.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Vacanza estate 2004 USA

uno dei momenti in cui ho capito che la mia vita era un'altra

Qualche amico e molte nuove conoscenze in Italia e qui in Kenya, mi chiedono come mai ho “buttato” tutto alle spalle, perché ho scelto questo percorso che pare così duro, diverso e lontano da quello che sono, o meglio dico io, da quello che ero.
Cosa, chi e perché mi ha fatto intraprendere questa strada?
Difficile riassumere tutte le motivazioni e le sensazioni, in un’unica ragione ed impossibile spiegarlo brevemente senza essere a volte fraintese.
Posso iniziare con il dire che ho avuto una vita intensa, fatta da mille cadute e risalite. La mia vita non è stata lineare, semplice, né scontata. Forse per questo, cambiare vita non mi è sembrato più difficile che nel passato, anzi forse questa volta, perché ho deciso da me il cambio di rotta è stata l’unica volta piacevole.
Una delle spinte che mi ha fatto pensare anni fa che la vita che stavo vivendo non mi apparteneva, era la sensazione che mi era stata cucita addosso male come un vestito che non ti valorizza. Come una fotografia che rispunta da un cassetto degli anni passati, quando ti rivedi con improbabili acconciature ed immettibili vestiti e ti chiedi come facessi a conciarti così!
Uguale, mi guardavo allo specchio e mi sentivo fuori posto, o meglio non con i vestiti a posto. Il senso di soffocamento era continuo, costante e davo la colpa all’ansia, alla tiroide, allo stress, ai problemi, all’uomo sbagliato, al capo isterico ma mai pensavo che la mia vita in blocco ne fosse la causa.
Ho iniziato a lavorare giovanissima parallelamente all’università di giurisprudenza, ottima formazione per due anni, infarinatura perfetta per il mio futuro ma decisi di abbandonare presto quell’indirizzo che non era specifico, né così prezioso per il mio lavoro dell’epoca. Continuando a lavorare mi specializzai in comunicazione e marketing e la mia carriera velocemente progrediva tanto quanto cambiavo i lavori e le aziende. Due anni in un’azienda, poi un anno e mezzo in un’altra e così via. Non mi risparmiavo mai, arrivavo sempre per tappare un’emergenza o iniziare un progetto impegnativo, un lancio di una campagna, un marchio da rilanciare, una testata da promuovere sul mercato. Sempre nelle nicchie di mercato, mai grandi nomi o altisonanti a parte due casi ma ho sempre preferito le medie aziende. Lì era dove si imparava di più, dove potevi vedere molti più tasselli delle società e parlare e lavorare gomito a gomito dalla centralinista all’amministratore delegato. Vedere i bilanci, studiare i budget, capire fino in fondo come muoversi nelle varie caselle e nelle strategie delle società. Avevo fame e sete di imparare, di crescere e conoscere sempre di più e di più. Non mi bastava mai. Non mi fermavo mai. Dodici, anche quattordici ore al giorno senza una sosta, sette giorni su sette e chi tra i miei amici legge questo post lo può confermare, a volte sparivo per un mese intero non rispondevo nemmeno al telefono. Sono arrivata da agente e consulente a seguire contemporaneamente 3 società quasi come se fossi un dipendente full time per tutte e tre.
La mattina le mie mail partivano alle 4.30 massimo alle 5 e chi ha lavorato con me, leggendo queste righe, sorriderà, perché arrivavo alle 8.30 in ufficio, dopo che ero già passata per tipografie e stampatori, a controllare i lavori eseguiti durante la notte e chiedevo ai colleghi se avevano letto la mia mail con i punti del giorno. Spesso mi rispondevano bofonchiando che erano appena arrivati, molto altre volte appena uscivo dall’ufficio captavo i “benevolenti” auguri di buona giornata…ero terribile. Con i colleghi sempre esigente ma anche con capi. Se infatti, come spesso accade nelle società, riscontravo angherie, scorrettezze non tardavo a farlo presente a scontrarmi anche con i “mega-capi”, famose le mie sfuriate con gli AD difronte a straordinari o bonus promessi e non riconosciuti a colleghi che si erano ammazzati di lavoro.
Insomma non stavo zitta, mi ribellavo se sentivo che potevo provarci o al massimo, cercavo altro se mi stufavano le lotte sterili e me ne andavo da un’altra parte finito quello che mi interessava finire e imparare e chiudevo i capitoli senza star tanto a spiegare.
Soprannominata Bulldog, perché non mollavo la presa mai ma forse anche, perché appunto, rompevo come un cagnaccio di razza bulldog di quelli che ti tampinano sempre abbaiando e spingendoti ai calcagni, finché non vai dove ti dicono loro. Infatti a me stanno simpaticissimi.
Non guardavo ad interessi da così detti ”paraculi” per mantenermi un posto e fare carriera in quel senso, non erano i soldi che mi interessavano ma era crescere. Volevo salire, arrivare sulla vetta, vedere che c’era lassù. Mi ponevo obbiettivi a volte anche rigidissimi, li raggiungevo puntualmente e puntualmente ne riscrivevo di nuovi: entro 25 libera professionista, entro 28 società propria, entro 30 ingrandire e aprire attività etc etc …
Scalare, scalare, con una resistenza che a guardarmi ora mi chiedo come facessi. Ma una volta durante la scalata però mi sono domandata “e se quello che vedrò lassù non fosse abbastanza?”, quello è stato il primo errore. Ho cominciato a dubitare.
Ero giovane sì, avevo amici, avevo una discreta indipendenza economica da quando avevo 20 anni che mi permetteva di vivere e mantenermi egregiamente da sola, permettermi vacanze anche costose, quando riuscivo a ritagliarmi due settimane in agosto, la macchina, gli ammennicoli tecnologici vari, le cene fuori, i bei vestiti, l’aiuto in casa e riuscivo anche ad aiutare mia mamma. Insomma per una ragazza sotto i trent’anni che si era fatta da sola e che viveva a Milano non era poi così male. Non potevo lamentarmi soprattutto se vedevo da dove arrivavo, soprattutto se guardavo i miei coetanei, ancora in casa, ancora studenti, ancora lì nel limbo della vita…. Nonostante ciò non ero felice.

Se ritornavo con la mente a prima del mio primo impiego, ripensavo come mi piaceva leggere e scrivere e soprattutto parlare con la gente, sentire le loro storie, e raccontarle ad altri. Ero curiosa e mi sarebbe piaciuto girare un po’ il mondo per vedere cose e gente diversa.

Poi mi piacevano i bambini, mi interessava però aiutare quelli con difficoltà e soprattutto quelli che come me avevano avuto un passato difficile, di quelli che ci si chiede se potranno risalire mai la china.
Quando si cade in basso è difficile rialzarsi ma se a cadere in basso è un bambino e non ha a fianco persone e mezzi che lo aiutino può essere impossibile farcela.

Io ce l’avevo fatta, ce la stavo facendo e mi sarebbe piaciuto tanto aiutare alcuni di loro. Quindi nei ritagli minimi di tempo che avevo, aiutavo dei ragazzini di una comunità ma gli scampoli di ore a disposizione erano davvero sfilacciati e se ripenso che avrei tanto voluto lavorare nell’assistenza sociale…era frustrante vedere cosa stavo invece facendo.
Lavoravo con i media di rilievo, molti si stimavano per questo, per le mega riunioni nei palazzoni, con i top manager ma io non li vedevo così importanti, né i palazzi, né le persone, né i loro ruoli e sentivo soprattutto che vendevo o compravo, dipendeva da che parte della scrivania sedevo, un prodotto che non era ancora finito, era aria fritta, erano spazi vuoti.
A ripensarci ero più soddisfatta quando ad undici anni vendevo il pane e le pizze dietro al banco con mia madre. Non mi sentivo all’epoca gratificata di vederci entrambe alle 5 del mattino a lavorare in una panetteria ma ero poi soddisfatta quando la gente ci diceva che il nostro pane era buono e le nostre pizze erano speciali. Ecco sentirsi più soddisfatti di vendere michette e pizze, piuttosto che fare media plan con le più grandi testate e concessionarie pubblicitarie può forse rendere l’idea di che strani pensieri e sensazioni mi entrassero nella pelle.

Ho cominciato a sminuire il lavoro molto ambito da tanti. Questo è stato il secondo grave errore.
Lavorando così tanto non avevo, né il tempo, né la forza per leggere e scrivere, nemmeno le lettere agli amici lontani, o il diario che per anni avevo tenuto e che spesso fungeva da specchio nei momenti di tentennamenti. Non avevo il tempo per stare con i miei gatti, non avevo il tempo di guardare il cielo, di respirare l’aria dell’alba delle domeniche deserte di Milano, non avevo il tempo di stare con le amiche, non avevo il tempo di filosofeggiare, di stare in silenzio seduta a guardare nel vuoto e riflettere sul mondo, non avevo il tempo di cucinare, seguire la mia passione, preparare i dolci, viziare gli amici e me stessa. Lavoravo e basta.
Ero diventata una macchina da lavoro. Con qualche soldo in più in tasca, tante preoccupazioni, molte responsabilità e nessuna libertà di essere davvero quello che forse avrei voluto essere.

Non libera di spegnere il cellulare, perché dovevi essere sempre reperibile, non libera di prendersi un fine settimana men che meno lungo, non libera di dire “no,grazie” ad una cena di lavoro, o alla riunione del venerdì pomeriggio alle 18.
Ho iniziato a desiderare di essere libera davvero e questo è stato il mio fatale e decisivo errore che aggiunto ai primi due hanno portato la mia vita di allora a stravolgersi.

All’epoca non lo sapevo ancora ma tutto quello che ho fatto, scelto e azionato negli anni a venire mi ha portato a tutto quello che sto facendo ora,  non ne ero consapevole ma stavo cambiando, di nuovo, la mia vita.
Meglio dire la rotta della mia vita. Perché la vita è una ma le rotte, i mari e le terre che si possono tracciare, solcare e visitare possono essere innumerevoli.
Questo lo sto capendo, che se studi per diventare avvocato non devi necessariamente morire avvocato, se studi per architetto non devi farlo fino alla fine della tua vita. Se ti lanci a fare il carrierista puoi anche fermarti bruscamente e cercare quello che ti rende più libero e felice.
Spesso però è questo che non impariamo in tutta la nostra vita, ovvero a comprendere davvero cosa ci renda felici.
Studiamo come matti, ci impostano come bravi e perfetti scolari, che non devono contestare, dissentire e soprattutto dubitare mai. La strada è quella, loro te la indicano con un dito ed un braccio teso e tu pian piano come tanti altri a fianco a te, tendi il tuo di braccio in quella direzione e pensi che sia l’unica direzione. Perché tutti puntano verso quella unica via.
L’unica strada, l’unica vita.
Invece se pensassimo che di vite intorno ce ne sono mille, come mille sono le stelle, e che mille ne potremmo vedere e provare a scegliere se solo ci avessero insegnato a contestare, dissentire e soprattutto dubitare!!
Mi ricordo che quando ero piccola, dissentivo su tutto, domandavo sempre il perché per ogni cosa. Torturavo mio papà con i perché e i come, lui mi sembrava pazientemente rassegnato a farmi vedere dei lati delle cose non mi dava mai spiegazioni decisive e tagliate di netto e questo, credo, mi abbia aiutato molto nel mio spirito critico. Non mi dava risposte preconfezionate.
Come quando per la scuola dovevo disegnare in scala il duomo di Milano e lo tormentavo con i dettagli di precisione, perché a scuola mi dicevano che dovevamo essere il più precisi possibile. Invece lui, che era un artista, più che di mestiere come tanti se ne trovano, proprio per vocazione mi disse che la precisione stava nella mia interpretazione di come lo vedevo IO il duomo!
Mi insegnò che non era indispensabile disegnarlo precisamente ma darne l’impressione che IO provavo guardandolo. Fu il mio primo successo.
Non mi ricordo a dir la verità cosa mi dissero a scuola, perché ben presto mi accorsi che della loro opinione non mi interessava granché ma lo sentii come un successo personale. Il “mio duomo” lo vedevo bellissimo con le sue vetrate stupende, che credo di aver messo sul fronte e non sul retro, perché disegnandolo dal davanti ma piacendomi molto le vetrate sul retro decisi che dovevano essere posizionate in modo differente. Non mi ricordo molte cose di mio padre ma anche se poche devo dire che forse mi hanno segnato nel carattere molto di più di quanto avessi immaginato in passato.
Una delle rotte della mia vita iniziò da lì da quel periodo felice poco prima di incontrare diverse tempeste.
Un’altra rotta è iniziata ora, avendo attraversato molti altri mari in burrasca e mi sa che tanti altri ne affronterò ma basta sapere di poterli solcare con la mia barca, che se mai l’avrò si chiamerà “libera e ribelle”, come ero nata io e come sto cercando di tornare ad essere totalmente.

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Malindi 7 luglio 2010 ore 21.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)
LeaMwana Agnes prima dell'incidente
Nell’ufficio di Cristopher guardavo la foto di Agnes ha la mia età o forse un anno di più. Ha gli occhi profondi e dolci, è sua moglie. Hanno tre figlie, una di 15 ed una di 12anni molto diverse fra loro entrambe però molto educate e responsabili, poi c’e l’ultima di soli 3 anni, Zanella. In assoluto la più buffa e allegra di tutte, canta e balla tutto il giorno e poi parla in una lingua tutta sua che solo i suoi parenti, ovviamente, riescono a comprendere. Ha un carattere forte e un po’ ribelle se si mette in testa qualcosa niente e nessuno la fa desistere. Negli anni passati, piccolissima era portata sulle spalle a turno dalle bambine dell’orfanotrofio e veniva accudita da tutti loro come una sorella minore. Spesso, per non dire sempre, lei era presente, nelle nostre gite con i bambini. Anche le altre due figlie di Agnes e Christopher fanno parte del gruppo, sono sempre insieme a tutti i bambini e i ragazzi del LeaMwana.
Spesso rimangono da sole a controllare i loro “fratelli”e nel passato mi chiedevo osservandole,chi fosse la loro madre. Le bambine erano appunto frequenze fisse al LeaMwana e se arrivavo senza avvisare, una correva a casa lì vicino a chiamare il padre, il quale, spesso sempre e solo lui, arrivava con Zanella sulle spalle. Conoscendo Christopher, pur riconoscendogli carattere e uno spirito di organizzazione eccezionale non me lo vedevo ad educarle da solo, mi chiedevo chi e dove fosse la moglie e senza voler entrare troppo nel suo privato gli chiedevo semplicemente in generale della famiglia e lui sempre sorridente mi rispondeva “bene, bene sono a casa”. Ero curiosa di sapere come facesse questo uomo da solo ad organizzarsi con 3 figlie ed altri 35 bambini da accudire. Sapevo che la moglie lavorava nel campo dell’educazione, perché 3anni prima mi aveva detto che appunto lavorava part time in un asilo e quindi me la ero sempre immaginata presa con altri bambini da un’altra parte. In questi anni quindi LeaMwana era per me rappresentato da Christopher e basta. Qualche tempo fa, arrivando al LeaMwana, dopo una delle nostre gite, entrando lentamente nel piccolo cortile sabbioso, noto una signora seduta su di una sedia, ha una postura strana un po’ rigida, indossa uno scialle arancione sulla testa, penso che sia tipico di certe musulmane che si coprono solo la testa, intravedo in lei un sorriso e Amani, uno dei piccoli che sponsorizziamo, sussurra “ecco la signora”. Questa signora un po’ con fatica si alza dalla sedia e mi si avvicina lentamente, noto subito che c’è qualcosa che non va nel suo viso, le braccia e le mani hanno una postura strana. Realizzo in un attimo che ha vistose bruciature in faccia e sugli arti. La signora è ustionata, vecchie ustioni, oramai cicatrici che la legano nei movimenti e la rendono rigida nella postura.
Mi viene incontro e mi chiede se sono Gaia, rimango un po’ interdetta, Amani al mio fianco risponde per me, e lei mi butta le braccia al collo, mi tira a sé e mi stringe in un abbraccio. Sento le sue braccia piegate rigidamente in un’angolatura strana, io sono più rigida di lei, dalla sorpresa, non capisco cosa stia succedendo e chi essa sia. Ma lei senza capire i miei pensieri comincia a parlare e mi dice che mi ringrazia che i bambini parlano sempre di me, che Christopher gli parla da anni di Paolo e Gaia e che finalmente ci può vedere. Dopo pochi minuti capisce che io la guardo con un grande punto interrogativo dipinto sulla faccia e allora mi chiede: “ma sai chi sono io?” la guardo, mi sforzo di capire, mi sembra un viso noto, lo sguardo mi dice qualcosa ma sono certa di non averla mai conosciuta e poi di botto mi risponde con un largo sorriso che mette in mostra ancora di più le cicatrici che le incorniciano la parte bassa dal viso e mi dice. “sono Agnes la moglie di Christopher!”.
Non riesco a capire, la guardo e non riconosco la donna di appena 35-36 anni che dovrebbe essere, non corrisponde all’idea di donna che avevo, che guardavo nella foto nell’ufficio di Chris. Riesco a dissimulare il mio sgomento, faccio la svampita e comincio a parlare in generale dei bambini, con una scusa mi allontano e mi trascino via con me Amani, girato l’angolo lo blocco e lo riempio di domande su di lei, lui, sulle bruciature, su tutto. Amani con voce bassa e incerta risponde a tutto ma le sue risposte non sono abbastanza approfondite per me quindi lo liquido ringraziandolo. Torno indietro nel cortile e leggo nella faccia di Paolo rimasto da solo in piedi sotto il portico, le stesse mie domande, che intanto guarda interrogativo, il nostro guidatore di tuc-tuc che parla fitto fitto con Agnes e si abbracciano e lui sembra commosso e felice. Mi avvicino al gruppetto e chiedendo scusa, saluto Agnes promettendole di rivederci presto e ce ne andiamo verso il tuc tuc per tornare a casa.
Appena pochi metri dopo il LeaMwana sia io che Paolo ci proiettiamo in avanti verso la grata che ci separa dall’autista e lo tempestiamo di domande e così dopo anni di “buchi”, e di nostra inconsapevolezza, la storia di Agnes riaffiora dalle parole e dai ricordi di Mohamed il guidatore di tuc tuc.
Agnes, due anni e mezzo prima era a casa con la piccola Zanella che aveva pochi mesi, era stanca ma era ancora bellissima dopo la terza gravidanza che l’aveva un po’ affaticata e tenuta lontana dai suoi bambini dell’orfanotrofio che gestiva insieme a suo marito. Quella domenica aveva passato la mattina al LeaMwana con i bambini e vedendo rientrare Cristopher dopo una partita di calcio mentre lui stava facendo una doccia, voleva riscaldargli il pasto. Questo è l’ultimo ricordo di Agnes.
E’ quello che racconta a tutti in questi giorni che è ritornata a stare al LeaMwana. Poi più nulla e si risveglia in ospedale, con la parte alta del corpo, braccia comprese trasformate in dolorosissime profonde piaghe date dalle vampate di fuoco che l’hanno avvolta nella frazione di qualche secondo mentre scaldava su di un braciere il pranzo del marito.
Di quella foto dove si vede una donna affascinante con un bellissimo viso, guardandola oggi non rimane quasi più nulla, ma i suoi occhi forti, dolci e profondi sono ancora lì a testimoniare che la persona che era e che è ancora dentro esiste, forte e determinata a riprendersi la sua vita e i “suoi” bambini.
Se Cristopher era già per noi un mito prima, sapendo ora, che per anni non si è mai lamentato, mai sfogato di quello che aveva colpito lui e la sua famiglia, vedendo poi come ha continuato imperterrito ad occuparsi dei bambini e della sua famiglia, aumenta la stima per lui. Avendo conosciuto anche Agnes e la sua storia l’ammirazione per entrambi è alle stelle e questo ci serve e ci è servito per crescere e per gestire nostre situazioni e piccole sventure con ancora più coraggio e perseveranza.
Agnes tornerà nei miei post perché è uno spunto di vita eccezionale, che dovrebbe essere d’esempio per molti che si lamentano per meno, molto meno.

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I bambini del LeaMwana-Children of LeaMwana

Costruire con la tecnica delle balle di Paglia-Building with the strawbales technique

Perché usare le balle di paglia?

Per diversi, tanti motivi che qui di seguito elencherò, ma solo dopo una breve introduzione sull’origine di questo metodo.

Costruire con le balle di paglia è una tecnica nuova, anche se antica che risale ai pionieri di fine novecento in America, i quali, sprovvisti di legname, mattoni e cemento, dovettero adattarsi a costruire i muri delle case con le balle di paglia.
Si accorsero ben presto che queste case isolavano dal freddo, dal caldo e anche dal rumore. Man mano nei secoli la tecnica è stata migliorata, regalando case solide e durevoli. Difatti dopo diverse generazioni, esistono ancora case, costruite con questa tecnica perfettamente funzionanti ed abitate.
Le domande ed i dubbi possono essere mille per chi legge la prima volta sull’utilizzo di questo materiale, ma per ogni domanda o dubbio, esiste una risposta e non solo teorica ma concreta e visibile nelle molte case costruite con questa tecnica in ogni parte del mondo.
Le case, erette correttamente, possono durare per secoli, certamente serve una buona ed ordinaria manutenzione come ovviamente vale per ogni tipo di costruzione!
Le forme da dare a queste case possono essere molteplici. Case dall’aspetto fiabesco come quelle irlandesi o scozzesi, con i tetti di paglia, o quelle in stile britannico con i muri bianchi attraversate dalle travi di legno scuro con il tetto in tegole grigie, fino ad arrivare a forme tonde, bombate, fantasiose con dei giardini sui tetti, o ancora dal gusto etnico con tetti bassi e piatti, oppure ancora in stile molto asciutto dai tetti spioventi ed alti tipicamente nordici o ancora dall’aspetto tradizionale mediterraneo, insomma anche dall’aspetto classico.

Leamwana e il nuovo orfanotrofio-The new Orphanage LeaMwana

Costruire ecologico-Ecologic building

Nel dettaglio, il perché usare le balle di paglia?

RISPARMIO
Il grano esiste in abbondanza in quasi ogni paese e parte del mondo. Da Nord a sud, da est a ovest della terra, si possono trovare campi di grano e dopo la mietitura rimangono sui campi le balle di paglia. Queste sono, di fatto un materiale di scarto e solitamente vengono usate per le stalle, in generale per gli animali e quindi hanno un prezzo molto basso. – Le balle di paglia ci sono in abbondanza e costano poco.
Il rivestimento dei muri con le balle di paglia, è una mistura di calce spenta, argilla, sabbia e paglia, che stesi in diversi strati rendono le case fresche d’estate e calde d’inverno. – Le case con le balle di paglia sono economiche, perchè significa risparmiare anche per il riscaldamento e il raffreddamento delle abitazioni.

SICUREZZA
Gli spessi muri di queste case regalano silenzio ed un ambiente ovattato. Grazie all’utilizzo di materiali naturali, visto che non si utilizzano, né vernici, né sostanze chimiche e tossiche per la salute, i muri respirano, rendendo l’aria sana e anti-allergica. – In queste case quindi non si annida umidità e aria malsana, sono più sane delle case tradizionali.
Le balle di paglia, rivestite opportunamente con la mistura di calce e argilla, resistono agli incendi più a lungo che le normali case in cemento; questo non viene detto “tanto per dire” dagli ingegneri e architetti che si occupano di edilizia in paglia in tutto il mondo ma è dimostrabile dagli esperimenti e test del fuoco, realizzati un po’ ovunque in Europa, i quali sono ufficiali e visibili con certificazioni e filmati. – Le balle di paglia, quindi sono sicure anche contro gli incendi.

ECOLOGIA
Le balle di paglia e tutti i materiali utilizzati per completarla sono naturali e non inquinanti. Se demolite, queste case non deturpano irrimediabilmente la Terra con gli scarti, tutto torna alla natura, tutto è smaltibile e nulla rimane ad inquinare dopo il nostro passaggio. – Le balle di paglia quindi sono eco-friendly.
Queste case sono solide ma leggere e ci si può permettere di costruirle su fondamenta differenti, utilizzando per esempio, al posto dei pilastri in cemento, dei copertoni di camion e gomme d’auto esausti. Questi materiali, insieme alla ghiaia, oltre ad essere riciclati ed economici, grazie anche alla leggerezza degli edifici, creano fondamenta elastiche e quindi case antisismiche. – Le balle di paglia e le fondamenta di copertoni esausti regalano case sane, ecologiche e sicure anche contro i terremoti.

ECONOMIA
Imparare a costruire queste case è più facile e rapido di quanto si creda, o possa pensare. Si possono seguire dei corsi in campo d’opera, ovvero in un cantiere per una casa, per la quale si organizzano dei gruppi di lavoro. Si va fisicamente a costruire, con le proprie mani una parte di un edificio, in giro per l’Italia o per il mondo ed esistono molti corsi ed esempi, già realizzati con enorme successo. I corsi possono durare da pochi giorni, per avere un primo approccio, oppure prolungarsi fino al completamento di una stanza, fino al tetto. Persone comuni, senza alcuna esperienza possono imparare a costruirsi da sé la propria abitazione e con l’aiuto di volontari ed amici si possono vedere i risultati per la propria casa dopo soli pochi giorni. Costruire questo tipo di casa è quindi possibile con l’auto-costruzione e con l’utilizzo minore di mano d’opera. – Questa tecnica permette quindi di economizzare su costi altrimenti molto elevati, perché affidati unicamente ad altri.

SOCIALMENTE SOSTENIBILE
Portare questa tecnica in Africa, per ora in Kenya, significherebbe tantissimo per diverse ragioni. Prima di tutto, grazie al materiale usato, ovvero la balla di paglia, essendo questa leggera, significa poter coinvolgere anche le donne, le quali possono partecipare per la gran parte della costruzione. In un paese come l’Africa, dove le donne sono in forte numero ma spesso senza un vero lavoro, significa poter dare forza e soprattutto know-how anche a loro. Perfino gli anziani e i bambini possono partecipare in alcuni dei passaggi, come per esempio l’intonacatura e l’eventuale decorazione dei muri e dei pavimenti. Le famiglie allargate e le ampie comunità locali potrebbero unirsi quindi per costruire insieme i propri villaggi. – Con questa tecnica potrebbero avere case migliori, perché solide, sane, durature, con un impatto ecologico minimo ed ovviamente con dei costi per i materiali bassissimi e di mano d’opera esperta pari a zero.

Ecco svelati i perché!

Per tutte queste ragioni, mio marito, la mia famiglia ed io, come singoli individui, senza alcuna ong o onlus alle spalle, con la sola collaborazione dell’associazione La Boa e dell’associazione EDILPAGLIA Italia, nella persona del suo presidente Stefano Soldati, inizieremo ad agosto il primo corso sul cantiere per il nuovo edificio dell’orfanotrofio, LeaMwana a Malindi, Kenya, il quale è interamente gestito ed amministrato da persone locali da oltre 4 anni.

Questo progetto dell’orfanotrofio LeaMwana, costruito con le Balle di Paglia, potrà essere il primo esempio, di una lunga serie, perché i diversi gruppi di volontari e corsisti, che verranno da Europa, Italia e soprattutto volontari del posto, dimostreranno che è possibile, tutti insieme imparare a costruire case, con un materiale povero, economico ma ecologico, grazie ad una tecnica valida ed utile soprattutto per la comunità locale.

Risultati ottenuti e da ottenere:

Ad oggi siamo riusciti a raggruppare 15 volontari kenyoti, i quali doneranno 15 giorni del loro tempo, rinunciando a lavorare, quindi a guadagnare e questo è uno sforzo enorme ed ammirevole per la realtà qui del posto. Queste persone, insieme ai corsisti impareranno a costruire le fondamenta, con i pneumatici ed una stanza 6 metri per 6, dal pavimento al tetto.

Il lavoro è ancora tanto da fare, i materiali si stanno recuperando, soprattutto abbiamo finalmente trovato nel nord del Kenya, a Navaisha ed Eldoret, diverse fattorie disposte a venderci a prezzi bassi le balle di paglia.
Il direttore dell’orfanotrofio sta cercando donazioni ed offerte da parte dei locali e soprattutto altri volontari per poter proseguire, successivamente ai corsi, l’ultimazione dell’orfanotrofio. Si sta insomma cercando di fare tutto con i fondi dell’orfanotrofio, piccole nostre donazioni e offerte locali.

Serviranno in ogni caso degli aiuti economici per sponsorizzare il trasporto delle balle di paglia, dal nord alla costa che sarà l’unica voce un po’ più costosa nel bilancio dei materiali.

Contiamo di trovare degli sponsor, magari attinenti al progetto eco-sostenibile che vogliano supportare oltre che l’ultimazione di questa struttura, l’inizio di altre strutture utili per la comunità.
Con lo sviluppo di questi corsi per questa tecnica, si potranno infatti creare, oltre a tutti i vantaggi sopra elencati, anche nuove identità di occupazione, ovvero nuovi lavori!

Questi quindi sono i molti motivi per i quali sto promuovendo la tecnica delle balle di paglia e confido in chi legge che capisca e che ci aiuti a diffondere questo nostro progetto e chissà, magari ci aiuti anche diventando uno dei tanti piccoli sponsor che stiamo già raccogliendo.

Per ulteriori informazioni e approfondimenti :
libro “Costruire con le balle di paglia” di Barbara Jones
siti web: http://www.laboa.org e http://www.edilpaglia.it

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Malindi 24 giugno 2010 ore 23.49 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Radice di un albero secolare a Gede

Di carattere ad una prima occhiata, posso sembrare morbida e dolce, perché ho forme burrose e abbondanti, ho spesso il sorriso in faccia e gli occhi empatici e forse in parte è vero. In realtà però ho una pellaccia, sono coriacea, scontrosa per quanto posso essere diretta nel dire ciò che penso e quello che non mi piace. Per le cose importanti della vita, sui valori, sui principi profondi, non scendo a compromessi, mai o forse è bene dire quasi mai, ma accetto e spesso solo a metà unicamente quelli utili a qualcosa di positivo o se si rischia la vita. Non accetto quelli che non fanno che accorciare le strade, solo per risparmiare fatica e che al tempo stesso danneggiano la morale, l’etica mia e della comunità. Soprattutto non accetto compromessi che mi vengono imposti da altri, di solito me li cerco io e mai e dico mai cadono nell’illegalità. Quindi con me non si deve parlare di corruzione, di chiudere un occhio davanti alla pedofilia, alla violenza su donne, bambini e animali, di non pagare le tasse, soprattutto in un paese come questo che sono davvero fattibili.
Posso essere dura, molto dura col sorriso largo posso dire cose terribili e dare del cretino o del disonesto senza mai pronunciare queste parole. Non ho paura di dire quello che penso e a volte decido di non palesarmi solo perché capisco che non servirebbe a nulla e semplicemente prendo la decisione di tagliare fuori una persona o un business senza nemmeno dare spiegazioni.
Insomma non è facile con una persona come me cercare vie traverse. Sto cercando di farlo capire a questi quattro sgarruppati di italiani che hanno paura della propria ombra e agli altri 4 lestofanti che provano a farti scendere al loro livello, da ambo le parti facendoti pagare la corruzione.
Ma non capiscono che bisogna avere più palle a rimanere sulla retta via piuttosto che scendere a quei certi compromessi che loro non sanno  nemmeno più di poter rifiutare, anziché incentivarli.
Non capiscono che bisogna essere più tosti a rimanere puliti che a diventare delinquenti da cui guardarsi le spalle. Non capiscono che bisogna avere più paura ad essere corrotti e corruttori come loro, piuttosto che onesti come noi.
Io non ho paura quasi di nulla, non ho paura di fare fatica, non ho paura di sbagliare, non ho paura di tentare mille volte la stessa strada. Una che come me ne ha passate tante non ha paura di attendere per vedere un progetto completarsi. Quando uno vede la morte violenta in faccia, la respira a pieni polmoni, la tocca con tutta se stessa, la combatte con tenacia e slancio e ne esce praticamente illesa, capisce, se non impazzisce dalla paura e non si fa traumatizzare, che si può essere praticamente tutto nella vita, si può ottenere con tenacia qualsiasi cosa ci si metta in testa di essere e avere.
Si comprende che si è protagonisti della propria vita e non pallide comparse, dirette da altri.
Ho respirato troppa depressione nella vita e morte per replicare gli errori degli altri nella mia di vita, non spreco la mia possibilità di vivere pienamente per stupide ed infondate paure. So cosa significa morire e so cosa significa vivere, lo so sulla mia pelle e capisco molto bene la differenza. Per questo è difficile, se non impossibile farmi piegare.
Anche per questo l’altro giorno, nella frazione di qualche secondo, sapevo cosa dire e fare, quando mi hanno confermato in ospedale che al collo avevo un piccolo tumore di quasi sicura forma benigna, non ho tentennato: “tagliare-via-inutile ascoltare ancora % di rischi e di riassorbimenti e di esami pre-operatori istologici-via-lo facciamo dopo, solo per sicurezza”, tanto lo sapevo e lo so che sarà negativo che non è nulla, perché la vita mi ha destinato ad un percorso ancora lungo o per lo meno devo ancora risolvere delle cose e devo combattere delle battaglie, come tante ne ho fatte, perse e vinte ma ne devo ancora vincere e sono una che vuole vincere, sempre!
Alle 9 ho visto il dottore chirurgo, italiano, di Aosta, con le palle vere, laureatosi a Torino a riqualificato la sua laurea a Londra, poi è stato anche a Boston e poi non so per quale motivo è venuto qui in Kenya. Piccoletto, gambe da ex-calciatore, amante della montagna, capelli folti bianchi, occhi vispi e diretti, rapidi, dolce voce con l’inflessione torinese anche nel suo inglese, mi si riempiva il cuore di orgoglio mentre mi parlava, e sapevo che è molto stimato qui, tutti vanno da lui, le infermiere sono orgogliose di lavorare con lui e si vede. Mi parlava semplice,semplice, con tono tranquillizzante e mi diceva che non c’era motivo di spaventarsi e io ”e infatti non mi sono spaventata, ok facciamolo, subito però ho da fare oggi.”.

Così tra le 9.30 e le 11.30 ci siamo precipitati a fare altre cose urgenti in centro per le quali effettivamente eravamo venuti a Nairobi, avevo messo come seconda cosa la mia visita, sospettavo fosse qualcosa da approfondire ma non volevo darci troppa importanza e così è stato.
Giù di corsa agli uffici dell’immigrazione, spiegare a Paolo che nel frattempo dell’operazione lui doveva portarci avanti a fare altre cose e che poi subito dopo saremmo ritornati da quei furbacchioni di impiegati governativi. Così alle 11.30 di nuovo in ospedale, compilata la scheda delle familiarità di malattie, morti, allergie e intanto pensavo che della vita di mio padre, del suo passato so poco o nulla e mi viene la malinconia ma poi penso ai “nostri bambini” che non sanno nemmeno chi siano i genitori, i parenti e allora mi dico, di cosa mi lamento e mi intristisco e proseguo veloce, meccanicamente come se stessi preparandomi per un’estrazione di un dente ma se ci si pensa effettivamente può essere così.
Alle 12.10 ero già dentro in sala operatoria, perfetta, stra-organizzata, tutti efficienti, 2 infermieri ad assistere il chirurgo, al lato della sala, noto due persone, le guardo distrattamente e il chirurgo per nulla superficiale, riscontrando il mio sguardo, mi informa che ho un anestesista ed un rianimatore, che sono solo lì per ogni evenienza ma che devo stare tranquilla. Sono tranquilla. Mi sdraio, chiedo se mi spiega per filo e per segno cosa mi farà, perché ho bisogno di sapere e lui lo fa, preciso, rapido, senza scendere in macabri particolari, sembra facile, come tracciare una riga nera su un foglio bianco.
Mi preparano, gentili e leggeri tocchi di mani mi sollevano, mi coprono con una coperta calda, che finezza e gentilezza penso. Mi ricordo in un flash in passato una sala di un pronto-soccorso con il letto gelido di metallo a contatto della mia schiena nuda e io mezza pesta nell’animo e un po’ sulla faccia, nessuno che mi diceva di stare tranquilla. Ero tranquilla lo stesso, anche se quella volta avevo rischiato di morire e lo sapevo. Ma qui è diverso, è un’altra storia.
Così il dottore inizia con l’anestesia, sento un dolore lancinante ma so che passerà, respiro profondamente. Chiedo di avere uno specchio sulla luce per guardarmi ma il dottore mi dice “non si può è meglio di no, non si fa”, ok, non sa lui che io non mi impressiono a guardare ma più ad immaginare, però decido che qui comanda lui e quindi obbedisco.
I minuti passano, sento il bip-bip alle mie spalle del mio battito, ad un certo punto una mano mi solleva un polpaccio e mi mette sotto una placca fredda, capisco che è il rianimatore, intanto sentendo tutto e capendo sempre meglio l’inglese sento che sto sanguinando molto, è il mio “problema” ho il sangue molto fluido vado facilmente in emorragia, l’ho scritto sulla scheda, l’ho sottolineato e la testa gioca un brutto scherzo e comincio a pensare, e se non l’ha letto, se c’è qualche complicazione, e se quella facile riga nera da tracciare su un foglio bianco fa un buco?e se muoio!?oddio, no….il bip-bip aumenta di velocità, me ne accorgo, sono io che mi sto agitando, allora mi dico, ma no dai, hai talmente tante cose da fare là fuori che non si può….allora respiro di pancia, visualizzo subito una luce calda, soffice, morbida arancione che mi entra dentro dal naso e va fino alla pancia, respiro calma come mi ha insegnato Karen a yoga e a meditazione e il respiro si fa di nuovo lento, il bip lo conferma le mani non le sento più ma sono pesanti come tutto il resto del corpo e sono tranquilla nuovamente.
In un attimo sento dei piccoli strattonamenti e capisco che sono i punti che mi sta dando il dottore, sbircio attraverso le garze che mi ha messo sugli occhi e lo vedo chino, calmo, concentrato e sono di nuovo consapevole: un’altra battaglia vinta, piccola ma vinta, contro la mia paura che mai voglio ammettere di avere, quella di morire, senza aver fatto tutto, tutto quello che voglio fare.
Mi tolgono il telo, mi guarda da dietro gli occhialoni, se li toglie mi sorride e mi dice che mi ha dato 5 punti esterni e un po’ interni, 7 o 8 “posso vedere quello che mi ha tolto!?”, si gira e mi tiene con le pinze, sospeso sopra il mio naso il pezzetto di me impazzito. Si può provare schifo per una parte di sé?, in quel momento sì, è una parte che riconosco mia ma che non sento così piacevole. La guardo e rimango in contatto visivo per far arrivare alla pancia, dove sento le sensazioni, e capisco che era tutto lì, in un pezzetto di carne e pelle, qualcosa che dovevo buttare fuori, e poi tagliare via con decisione. Fatto. Si va avanti.
Chiedo di alzarmi e uscire dalla sala sulle mie gambe, ci tengo, gli dico e lui mi batte teneramente la mano aperta sulla testa, come si fa coi bimbi, a metà tra una pacca ed una carezza e mi dice: ”you’re a strong woman”, “yes it’s true…c’ho le palle quadre!”, si gira e scoppia a ridere di gusto.
Mi fanno sedere fuori e mentre sono lì un po’ intontita per la paura e l’anestesia e la tensione che comincia a scendere, mi passa davanti un’infermiera con in braccio un neonato, ancora sporco, silenzioso con gli occhi semi chiusi, nel passarmi davanti ci incontriamo con lo sguardo e  sono sicura mi stesse guardando. Mi sono messa a piangere, ho pensato che la vita è stupenda e questo bambino ne è la prova e lui lo scoprirà quanto dura e bella sarà la vita.
Dopo poco ero in macchina per strada di nuovo con Paolo per vincere un’altra battaglia. Di nuovo agli uffici governativi dell’immigrazione per fare il mazzo a un gruppetto di furbi di loro. Parliamo con uno di questi che vuole di sicuro la mazzetta per farci passare la pratica e io coi punti, l’anestesia che mi da un po’ di senso di intontimento e le bende mentre rigida come un baccalà lo guardo truce e gli sorrido glaciale e gli dico che io la corruzione non la pago soprattutto, perchè siamo seri e professionisti e che non tutti gli italiani sono così merde e che la maggior parte di noi è un popolo eccellente e possiamo portare lavoro e benessere e che se non ci vogliono…beh c’è la loro cugina Tanzania a fianco, andiamo da loro….e penso…muori tu prima di me brutta piccola schifezza di omuncolo, tu, tumore della società. Il sangue mi pulsa nelle vene della fronte, sto per sbottare …
Poi ripenso alle parole del nostro taxista con il quale abbiamo parlato di quello che ci stava succedendo e lui con orgoglio di Keniota offeso per la corruzione del suo paese, ci ringrazia perchè ci dice che se ce ne fossero anche solo 10 al giorno come noi, loro vincerebbero la corruzione e il suo paese sarebbe salvo, che ci ringrazia perché stiamo lottando non solo per noi ma per i diritti di tutti, “tenete duro”.
Sì, tengo duro, devo dire che se è vero che ho le palle cubiche , me lo dicevano degli amici ridendo, riscontro che qui ti ci vogliono più che in altri posti…e ti escono proprio e se si è in gamba si viene fuori con i lati migliori, come Paolo che calmo e serafico a fianco a me mi ha sostenuto sempre, su tutto, non sa ancora parlare inglese e non può interagire come vorrebbe ma ora lo comprende molto di più e quando non capisce, interrompe, chiede spiegazioni, puntualizza e la sua calma mi aiuta non si fa mai prendere dal panico e questo vuole dire tanto e anche quando si arrabbia è composto, regale, signorile e la gente qui credo si spaventi ancora di più.
Io sto cercando di imparare da lui a contenere la rabbia, le esplosioni e poi dopo questa cosa del collo, capisco che la vita è davvero un gioco e non vale la pena prendersela mai tanto seriamente per certe cose, indignarsi, lottare, ribellarsi ma sempre col giusto distacco per non farsi intaccare nel profondo.
Scendiamo giù da quel palazzone carico di speranze, corruzioni e vite misere con un tassello raggiunto in più, aspettiamo il prossimo round, siamo consapevoli di non essere ancora arrivati ma siamo fermi sulle gambe. Lui mi tiene per un braccio, mi cinge il fianco e mentre scendo le scale, mi scende anche l’adrenalina di tutta la giornata e comincio a piangere e lui, sempre calmo, mi consola, dicendo che ce la faremo, sempre, insieme ce la faremo.

Eccomi lì, dura e morbida al tempo stesso.

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Malindi 11 giugno 2010 ore 05.38 ora locale – finito il 12 giugno alle ore 22.08 ora locale. (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Palazzo della civiltà italiana

Roma-Eur

Molti di noi, danno per scontato che noi italiani all’estero abbiamo una buona fama: cultori dell’arte in generale dalla pittura fino alla letteratura, non ci manca nessuno, basti pensare al palazzo delle arti e dei mestieri rappresentato a Roma, all’Eur dal Palazzo della civiltà Italiana o anche noto come“Colosseo quadrato”, amanti anche dello stile, della moda, e ovviamente della buona cucina, dei prodotti genuini; molti degli chefs famosi nel mondo sono italiani, in tanti amano la nostra cucina  buona e sana e la ricercano ovunque. Siamo famosi naturalmente per lo sport, il calcio, i nostri calciatori sono molto noti e spesso seguiti dall’estero con passioni sfrenate. Insomma ci avventuriamo negli altri paesi, pensando di essere minimamente noti per queste cose belle e forse anche di più.
In realtà in molti paesi che ho visitato e soprattutto con i diversi stranieri con i quali ho parlato in passato ma ultimamente, ovviamente mi capita più spesso, dato che mi sono trasferita a vivere in Kenya, hanno certamente un’idea di noi di un popolo con molte qualità e ci riconoscono il paese colmo di opere d’arte e bellezze, della cucina e del gusto  e di tutto il resto ma…c’è sempre un grande MA che inizia o inframezza i loro discorsi.
Posso parlare al momento più recentemente di qui e l’immagine che i molti stranieri hanno di noi, devo dire non è delle migliori.
Incominciando dall’immagine politica, tedeschi, belgi, olandesi, inglesi e francesi e devo dire anche kenyoti, sono molto informati sulle vicende politiche italiane(o solo qui esiste una forte concetrazione di appassionati in politica estera!), quindi spesso mi sento rivolgere domande pungenti sulla situazione nel nostro paese. Inutile nascondere che argomento principe è Berlusconi, non sono mai e dico mai io a nominarlo, a tirare fuori il nome, me ne guardo bene ma puntualmente quando iniziano a parlare di politica, saltano su e mi chiedono: ” e Berlusconi?…cosa ne pensate voi?cosa pensate di fare?”. Spesso Paolo ed io ci guardiamo e credo che entrambi siamo tentati dal rispondere, “ehm…scusa ma non parlo di politica” come mi stesse chiedendo delle nostre emorroidi…così da troncare lì il discorso, ma si sa gli stranieri ci tengono molto alla politica, soprattutto estera, la ritengono una cosa seria, da non sottovalutare, da non trattare come un teatrino da avanspettacolo, soprattutto poi, se si tratta di un paese europeo come il loro. Quindi seppur tentati non rispondiamo mai così, potrebbero offendersi! A quel punto iniziamo, nervosi giri di parole cercando di portarli a far esporre le loro opinioni per evitare descrizioni di come e perché è stato eletto, cosa sta facendo, entrando insomma nel dettaglio…ma loro ci fregano sempre, sanno sempre tutto e qualcosa, anzi molto di più di noi.
Puntualmente mi chiedono informazioni sulle sue collusioni mafiose: è vero che ospitava un mafioso?(vaglielo a spiegare che lui dice che era uno stalliere povero che aiutava e non sapeva che era un po’ birichino), sul conflitto d’interesse : come fa ad avere 3 canali televisivi, stampa, e media e stare in politica(porca miseria allora ne parlano anche loro?!), sulla corruzione: ma il caso Mills com’è finito?(“che ne so, non ci capisco nulla”, come glielo spiego senza arrossire), e poi è vero che ha tante giovani amanti e che è andato pure con una minorenne ed una prostituta? (come gli spiego anche questa che il fascino del latin lover ha effetto anche sugli over 70 da noi in Italia?), e infine spesso ci finiscono con: ma è vero che ha detto del presidente degli stati uniti che prende tanto sole insieme alla moglie(no, ecco, in realtà, la battuta era diversa, ho provato una volta anche a spiegargliela ad un olandese, rendendo la sua faccia più sbalordita e la mia più imbarazzata…), poi la domanda che di più mi fa piegare sulle gambe è di solito quella che ritorna alla mafia: ma è possibile che non riuscite a fare nulla per fermare una decina di famiglie mafiose?(vaglielo a dire che ci hanno provato in tanti e tanti, bravi e seri italiani, da poliziotti, carabinieri, politici, imprenditori per finire ai giudici, i nostri giudici, tanto bistrattati e come i più famosi di quest’ultimi Falcone, la moglie, Borsellino e tutte le loro scorte sono stati uccisi selvaggiamente?).
Sapete che un amico giapponese, molto imbarazzato mi ha confessato che nella guida turistica del suo paese e su blog e siti che parlano del Kenya, dove è venuto a trovarmi, metteno in guardia dalla mafia italiana?e mi chiede imbarazzato e candido : ma tu per caso sai chi sono?li conosci? Puoi fare qualcosa?
Ecco davanti, questo sì, un “plotone di domande” che  noi spesso non sappiamo cosa rispondere, mio marito di solito cambia discorso, parlando di ricette e del suo ultimo esperimento o cerca di farli addormentare discuisendo sui suoi cani, di come corrono, mangiano, saltano, ululano fanno i loro bisogni, insomma cerca di depistarli con idiozie…io a volte, mi accaloro e cerco di spiegarmi, di far capire che non siamo solo quella Italietta lì.
Che il premier non rappresenta il campione degli italiani, che è vero ci sono tutti quei problemi e sembra che non ci sia la volontà di cambiare ma che chi c’è al governo non tutto è sbagliato, non tutto è da cambiare e che ripeto, il presidente del consiglio non è lo specchio degli italiani….o forse sì?mi domando quasi subito guardando le loro facce??
Ora lottando ogni giorno con questi pregiudizi nei nostri confronti, ma posso chiamarli davvero così? In ogni caso ogni giorno affronto questi temi e devo dire mai come ora mi sto interessando mi cimento a leggere ed informarmi, perché questi stranieri sono tremendi sanno e si ricordano tutto anche di eventi passati, io invece rimuovo, cancello, dimentico…ed ecco qui la fregatura mi dice uno un giorno…dimenticate e non sapete a cosa vi stanno portando.
Già a cosa? Boh?
Io intanto nel mio piccolo mi informo e lotto con le parole e i concetti non solo con gli stranieri ma con gli stessi italiani!

Come ieri con l’emendamento 1707 sulla perseguibilità degli atti pedofili.
E’ un passo indietro davanti al mondo sulla severità delle pene nei confronti di questi criminali è un passo indietro nei confronti dei diritti dei nostri figli, del nostro futuro. Grazie a qualcuno non so a chi e come, l’emendamento è stato bloccato, annullato.
Comunque, ieri faccio un parallelo, che è forte certo e dico che al governo a partire dal nostro presidente non ci si scandalizza per abbassare i livelli di molestia nei confronti di un minorenne e mi dico non tanto stupita, dato che il nostro capo di governo, più che arzillo settantenne, come reso noto in tutto il mondo da stampa e tv libere, ha frequentato diciottenni, ne parla la stessa interessata dicendo che lo frequenta da prima della maggiore età e questo lo si è letto un po’ ovunque e lui se ne vanta pure, ed anche a questo si è dato ampio spazio sulla stampa estera e non di sinistra italiana…
Intendo dire, è ovvio che, se questo è l’esempio dato dalla nostra prima carica governativa, non ci si può stupire della bassa attenzione e ampia superficialità che si ha su di un reato che spesso corre su un filo di lana per età ed ora anche per gravità dei gesti!
Sapete, qui e non sono l’unica a vederle queste scene e a criticarle aspramente, ci sono 70enni, e oltre che si accompagnano a poco più che maggiorenni e lo fanno spavaldamente, trisnonni con ragazzine che hanno l’eta delle loro nipoti o giù di lì? E’ uno spettacolo edificante secondo voi?
Ce ne sono di tutte le nazionalità in giro per il mondo, per carità ma io sono italiana e guardo cosa fanno i miei connazionali per prima.
Sentirli parlare al bar di come il premier è un “figo perché fa vedere che uno di 70anni può ancora andare con una 18enne!”non è un bel discorso da sentire tra cappuccino, brioches e vorrei sinceramente sentire parlare di altre cose sul nostro premier, amato o odiato, appoggiato in toto o contestato, vorrei sentire di una proposta di legge più dura contro i mafiosi e i reati di mafia, di lotta alla corruzione, di risolvere il suo conflitto d’interesse, regolamentare le intercettazioni e la stampa e non di restringere il potere di libertà ed informazione!
Dire che con questo emendamento si stava dando più libertà e leggerezza a gesti terribili, mostruosi e criticando il premier, perché da il cattivo esempio non è attaccarlo, è democrazia poterlo criticare!
Dire che era vergognoso, lui, il suo governo e i suoi gesti è poco ma qualcuno si è alzato a dire che il mio parallelo, era ingiusto che bisognerebbe guardare che ci sono le ragazze facili di costumi, prostitute, trans….Certo che ci sono e noi come possiamo “educare” queste ragazze così giovani dai bassi livelli di moralità? Facendo vedere loro che perfino il nostro governo, premia le ragazzine giovani che si mostrano accondiscendenti e senza soldi principi. Facciamo vedere al mondo che si va avanti in questo modo? Diamo l’esempio che è normale vedere nonni d’età ed aspetto insieme a giovanissime. Vi va bene questo esempio? Vi piace? Lo vorreste per le vostre figlie e nipoti? Davvero????
Qui non si sta parlando di sentimenti d’amore, tra due adulti consenzienti…cerchiamo di capirci!
Allora non siamo falsi moralisti e regolamentiamo la prostituzione ma non mischiamo concetti, non confondiamo maglie larga della giustizia con il concetto “così fan tutte” e allora gli uomini ci stanno.
Il mio è un grido di furore e di dolore, per vedere come la nostra immagine di brava gente, seria, onesta, pulita viene sporcata da esempi sbagliati a partire dal governo che dovrebbe essere esempio positivo e da un’idea corrotta di senso di libertà e privacy violate.
I miei coetanei e non solo, vivono in un grande bluff da anni, in un sogno, in un incubo dove tutti siamo diventati zombie! Addormentati, anestetizzati nei principi, nei valori, nelle priorità di una democrazia.
Tutti ci guardano e attendono risposte che noi nemmeno ci poniamo.
Noi, italiani “brava gente” che ci facciamo sporcare da altri, da pochi perché non abbiamo il coraggio di ripulirci, alzarci, tenere eretta la testa e parlare a voce alta e chiara  pretendendo la nostra voglia di cambiamento, la nostra voglia di rivalsa nei confronti di un’immagine che non ci appartiene? Pretendiamo la Civiltà Italiana.

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Malindi 8 giugno 2010 ore 17.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

I personaggi che stiamo incontrando ogni giorno, sono degni di un film comico-drammatico ce n’è per tutti i gusti, e non ci stanchiamo mai di sorprenderci ed esclamare: “non ci credo, non è vero!”.
Tralasciando i 3 e a volte 4 passeggeri trasportati come se nulla fosse in moto, questa è una scena che si può anche vedere a Napoli o giù di lì, o le intere famiglie agglomerate in un’unica macchina utilitaria e qui le famiglie non si limitano ad avere 3 figli ma si arriva anche a 7-8 e magari con 2 mogli, ecco tralasciando questo che si può considerare ovvio qui si vedono ben altre scene e personaggi.
L’altro giorno ha piovuto intensamente per tutta la mattina, la pioggia era forte e violenta, pareva un muro grigio che avanza verso il terreno e che si rompeva fragorosamente in mille particelle che subito prendevano la forma di un fiume in piena. Le strade di Malindi si sono rapidamente allagate ma il traffico non ha accennato minimamente a diminuire. Abituati alla luce intensa e al sole che fa risaltare i tanti verdi della vegetazione, ci godevamo un nuovo spettacolo della natura dalla terrazza coperta di uno stabile che ci regalava un’ampia visuale.
Così appollaiati come spettatori su di una insolita arena, abbiamo visto i guidatori di tuc tuc che si precipitavano a coprire i lati aperti dei loro veicoli per proteggere i loro clienti con cellophanes adattati e fissati con corde, questo perché sprovvisti delle più professionali ma costose tendine. Qui sono  dotati di un forte senso di adattabilità e molta, molta fantasia, un pezzo di plastica diventa un tetto e in questo caso una tenda e a volte anche le stesse corde per legarli, non sono davvero corde ma strisce di tessuto, a volte canottiere tagliate, in un caso ho visto strappare anche un paio di mutandoni da uomo.
Guardando oltre abbiamo notato i pick up che portano dietro i loro cassoni aperti i diversi lavoratori verso i cantieri, mentre si fermavano ma solo quelli più caritatevoli ovviamente, e coprivano i mal capitati con i teloni per i camion e gli stessi dovevano tenersi con una mano alla sbarra e con l’altra tenere un po’ sollevato il tendone improvvisato. Guardandoli con occhi diversi possono far pena, o far sorridere dipende dallo spettatore ma i personaggi che farebbero ridere chiunque sono le donne, e soprattutto le donne in moto mentre piove!
Le donne qui hanno la fissa per i capelli molto più forte di quello che ci si aspetterebbe.
La maggior parte di loro si sottopone a lunghe torture dai numerosi parrucchieri per africani per farsi fissare sui corti capelli crespi, numerose, lunghissime e finte treccine che acconciano poi in coraggiose acconciature, che sfidano la gravità, oppure ci sono quelle che vogliono assomigliare di più agli europei e si incollano posticce ciocche lunghe e lisce, dai colori più improbabili che possono anche partire dal biondo cenere ma le mie preferite sono le donne che si mettono in testa miracoli della scienza, sculture di ricci e boccoli, di mille colori e sfumature con forme a punta in verticale a volta anche a punta i orizzontale, onde e curve improbabili che creano forme da arte moderna, ovvie parrucche di ogni forma e colore che vi possa venire in mente loro qui ce le hanno. Sudano sotto il sole cocente come forni spinti al massimo da giorni ma loro stoiche non se la sfilano e nemmeno di soppiatto provano ad asciugarsi la testa, ogni tanto dati gli scossoni dei tuc tuc e gli sballonzolamenti dei boda-boda (tassisti in bicicletta meno costosi dei tuc tuc), questa impalcatura si muove o scende ma loro rapidamente con un gesto degno di un karateka, assestano un colpetto e la rimettono a posto come se nulla fosse.
Data quindi questa loro fissazione, potrete capire che tragedia è l’arrivo di piogge violente! Soprattutto poi se si deve andare in moto o in boda-boda!
Ma loro, perché dotate di fantasia e ingegno si sono attrezzate!
Quindi se si viene qui in un periodo di piogge più frequenti capiterà di vedere sfrecciare moto munite di ombrello, il poveretto del guidatore deve piegarsi tutto in avanti ma non troppo, per permettere al passeggero, solitamente donna, di tenere aperto l’ombrello per evitare che si bagni il casco naturale che ha in testa! Ci sono poi quelle ancora più geniali ed organizzate che all’ombrello aggiungono un accessorio indispensabile: la cuffia!
Ma la cosa più bella e vedere la naturalezza e lo sguardo spavaldo che hanno queste donne mentre reggono da un lato la borsetta, con una mano l’ombrello, con un mignolo si reggono al sellino e sulla testa portano trionfanti cuffie trasparenti o a volte anche a fiori.

Mitiche, è proprio vero che paese che vai….

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Malindi 24 maggio 2010 ore 15.59 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

LeaMwana Children Center Care

LeaMwana realizzato con le balle di paglia.

Oggi qui a Malindi è una giornata fresca, un po’ grigia ma piacevole, dovrebbe essere il periodo delle piogge, dico dovrebbe, perché mi aspettavo piogge torrenziali per giorni interi e per una settimana di seguito, invece per ora ho vissuto solo improvvisi intensi acquazzoni che si alternano a pomeriggi assolati e cocenti. Nel frattempo ne gode la vegetazione che è un tripudio di decine di verdi scintillanti dai più tenui ai più intensi. I Baobab paiono avere una testa di ricci verdi, così carichi di foglie che mai avevo visto nei miei trascorsi qui. Le bouganville si allungano e si estendono ovunque con i loro rami carichi di foglie enormi e brillanti e l’erba é così fitta che ogni due giorni va tagliata.
Insomma il così tanto temuto ed orribile periodo delle piogge per ora si sta rivelando il momento migliore mai vissuto qui. Infatti in queste settimane, Malindi soprattutto si è svuotata totalmente, regalando un po’ più di calma e di silenzio a chi rimane. Certo i venditori ambulanti ed i negozianti si lamentano, qualcuno si dispera per i mancati guadagni ma i più si crogiolano al sole e si riposano aspettando i primi di luglio quando i primi turisti torneranno ad affollare, le vie e i negozi di questa caotica e chiassosa cittadina.
Approfitto quindi di una giornata un po’ più uggiosa per scrivere e aggiornare amici e parenti che mi chiedono di scrivere un po’ di più, bigiando le lezioni di inglese e kiswahili mi sono chiusa in veranda con lo sguardo sul giardino a mettere giù tutte le impressioni dolci ed amare raccolte in questi due ultimi mesi.
Come già ho scritto in un altro post, il mio cambiamento, il lento risveglio sta avvenendo, oramai ogni giorno mi sento sempre più lontana dalla marionetta che negli anni ero diventata e mi sento più libera di scoprire me stessa.
Quello che mi pareva un sogno, un film, ovvero di aiutare i bambini dell’orfanotrofio del LeaMwana sta incominciando a prendere forma.
Le adesioni per il corso per imparare a costruire una casa con le balle di paglia stanno arrivando.
Costruiremo o meglio inizieremo a costruire il nuovo orfanotrofio con la tecnica delle balle di paglia. Un metodo nuovo anche se antico che risale ai pionieri in America che sprovvisti di legname dovettero adattarsi a costruire le case con le balle di paglia, si accorsero ben presto che isolavano dal freddo e dal caldo e anche dal rumore. Man mano la tecnica si affinò e ad oggi esistono ancora case perfettamente funzionanti ed utilizzate costruite con questa tecnica nel Nevada.

Le domande saranno mille nella testa di chi legge per la prima volta di questo materiale, ma posso assicurare che le mie mille, anzi no, miliardi di domande poste hanno avuto risposte esaustive ma soprattutto hanno avuto conferme esistenti. Le case stanno in piedi per secoli, ovviamente con una buona costruzione alle spalle ed una manutenzione ordinaria(ma questo dovrebbe valere per tutte le costruzioni).
Le balle di paglia e tutti i materiali utilizzati sono naturali e non inquinanti, non deturpano irrimediabilmente la Terra, se si abbattono queste case, tutto torna alla terra, tutto é smaltibile, nulla rimane irrimediabilmente ad inquinare dopo il nostro passaggio. Le balle di paglia sono eco-friendly.
Inoltre le balle di paglia, propriamente rivestite di una mistura di calce spenta e argilla in diversi strati, rendono le case fresche d’estate, calde d’inverno e soprattutto non si annida umidità e aria malsana, quindi sono più sane delle case tradizionali e anche più economiche nella manutenzione e gestione.
Rivestite opportunamente resistono agli incendi molto più a lungo che le normali case in cemento e questo non lo dicono tanto per dire gli ingegneri e gli architetti che si occupano di case in paglia ma lo dimostrano con esperimenti e test del fuoco ufficiali, realizzati un po’ ovunque e dimostrabili con certificazioni e video.
Le case sono silenziose, l’ambiente è ovattato all’interno e già dalla prima impressione percepisci che è sano,questo dato che non si utilizzano né vernici, né sostanze chimiche e tossiche per la salute.
Se costruite su fondamenta particolari, utilizzando copertoni (gomme per auto e camion) dismesse e ghiaia, diventano anche antisismiche. Il terremoto dell’Aquila ha un esempio citato sul sito :www.laboa.org.
Le forme da dare a queste case possono essere molteplici, da quelle dall’aspetto fiabesco, come le case coi tetti di paglia irlandesi o scozzesi, a quelle più in stile britannico con i muri bianchi e le travi di legno dipinte di scuro e il tetto in tegole grigie, fino ad arrivare a forme tonde, bombate e fantasiose dal gusto etnico e caliente dell’argentina con i tetti bassi e piatti, oppure ancora in stile molto pulito e asciutto dai tetti spioventi ed alti dal gusto nordico o ancora con uno stile tradizionale mediterraneo insospettabilmente dall’aspetto classico.
Imparare a costruire queste case è facile e rapido, si possono infatti seguire dei corsi in campo d’opera, ovvero in un cantiere.
Si va fisicamente a costruire, con le proprie mani, una casa e i corsi possono durare da pochi giorni, per avere un primo approccio, oppure prolungarsi fino al completamento di una stanza fino al tetto.
Lo spirito che mi ha subito affascinato, essendo donna, che le “femmine” non vengono respinte e guardate con sospetto e sufficienza per voler svolgere lavori di solito attribuiti solo agli uomini, anzi non solo sono ben accolte ma sono considerate alla pari e parte integrante del progetto, perfino persone anziane e bambini possono partecipare in alcuni dei passaggi, come per esempio l’intonacatura e l’eventuale decorazione dei muri e dei pavimenti.
Lette tutte queste cose prima sul sito : http://www.laboa.org di Stefano Soldati e poi sul libro di Barbara Jones, “Costruire con le balle di paglia”, ho deciso con la mia solita entusiastica intraprendenza, vista da molti a partire da mia madre con ironia e incredulità nel risultato, di contattare direttamente colui che mi aveva ispirato fiducia. Così ho scritto una mail a Stefano Soldati, sul mio progetto in Kenya. Gli ho illustrato il nostro progetto di trasferimento, della mia idea di costruirmi una casa con questa tecnica per non inquinare e non deturpare ambiente e natura ma soprattutto per sperimentarla prima sulla mia “pelle” e poi procedere, una volta visti gli eventuali problemi, costruendo l’orfanotrofio LeaMwana, per il quale nutrivo tanto interesse nell’aiutarlo da diversi anni ma alcuna risorsa economica sufficiente. Gli spiegavo che con questa tecnica saremmo riusciti almeno ad iniziare i lavori e poi chissà a trovare i finanziatori e poi i volontari e blablabla….. e la mia mente, la mia fantasia e la mia volontà di aiutare volavano sulle punte delle mie dita che digitavano veloci le parole…. e mentre scrivevo questa mail mi dicevo che forse, anzi di sicuro, mi avrebbe considerato un po’ matta, un po’ fuori dal mondo, una di quelle che si esalta come un bambino, senza rendersi conto dei limiti. Si vede però che anche Stefano deve essere un po’ matto o non so cosa, perché invece che cancellare la mia mail, o rispondermi evasivo, o mettermi davanti a delle problematiche insormontabili, facendo così crollare il mio entusiasmo, mi ha risposto che potevamo iniziare subito dall’orfanotrofio e intanto rispondendo a tutte le mie domande angosciate (la pioggiaaaaa durante il periodo delle piogge!!!???-quale pioggia? Piove più in Scozia a confronto!) e ai miei mille dubbi, mi stava concretizzando il sogno davanti agli occhi, i qauli si sono riempiti subito di lacrime. Ero emozionata.
Qualcuno mi dava retta, qualcuno voleva provare questa avventura senza dire subito: “non si può – è follia”.
Forse c’è davvero del folle in questo progetto, ma senza la follia positiva, mi chiedo che sarebbe la mia vita ora e quella di molte altre persone!!?
Ora sono qui, in questa terra che sento mia come non mai, a chiedermi come fare a divulgare questo mio progetto, come faccio a trovare tanti folli positivi come me,mio marito e Stefano e coinvolgerli in questi corsi?
Come faccio a far comprendere alle persone che i sogni si possono far esistere davvero ma soprattutto che la realizzazione di questi è possibile, solo se ci si mette insieme a più persone con tutto il cuore, la felicità e la fiducia ?!!
Si possono aiutare delle persone, dei bambini orfani, solo se si vuole davvero.

Nulla è impossibile. Nulla è impraticabile.
Le prime adesioni stanno arrivando ma ne servono ancora e molte di più!
Cerco persone curiose, di ogni estrazione sociale e cultura che vogliano sperimentarsi nell’imparare qualcosa di nuovo ed utile per loro ed allo stesso tempo un aiuto per dei bambini, per avere una casa migliore dove vivere.
Io pagherò il corso per me, per mio suocero che ho in pratica forzatamente reclutato(ma questa chiamata, sono sicura l’ha accolta con piacere) e per due persone del luogo, dei locali, così che il know-how non si disperda e con i quali potremo poi continuare a lavorare a questo progetto ed io spero a molti altri.
Spero che questo primo mese di corsi sia solo il primo di una lunga serie.
Spero che questa esperienza porterà conoscenza su una tecnica nuova, con materiali ecologici e poco costosi e che potrà aiutare non solo gli occidentali a costruirsi case di nuova ideologia e concezione eco-friendly ma anche le popolazioni locali più povere, che potranno costruirsi case più solide e durature con minor costi.
Spero e desidero che tutto ciò avvenga e chiedo anche il vostro appoggio, aiuto, anche solo diffondendo il link del mio blog, inoltrando il testo in una mail a degli amici, chissà che fra loro non ci sia qualcuno che possa essere interessato!?
Non metto mai limiti alla potenzialità delle persone.
Per questo credo nel progetto dell’orfanotrofio LeaMwana costruito con le Balle di Paglia.

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Malindi 18 maggio 2010 ore 11.20 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Manrani Club

Albert, Amani, Nassib

I ragazzi del LeaMwana hanno ricominciato la scuola, qui studiano per 3 mesi e poi si fermano per un mese, quindi in aprile, il mese di vacanza è passato troppo velocemente. Finalmente siamo in una nuova casa (sì, è la quarta in solo 4 mesi ma spero che per un po’ rimarrà la stessa) che ha una piscina ma dal sei d’aprile quando siamo entrati, siamo riusciti ad averla funzionante solo dopo un mese e mezzo ma qui si sa le cose possono andare molto a rilento. Basta una pioggia improvvisa e tutto si blocca o viene rinviato ad una non ben precisata data – qui per altro le piogge sono sempre improvvise, dato che non esiste l’abitudine della ricerca e controllo su internet o sui giornali o con il televideo o ancora attraverso i telegiornali delle previsioni del tempo del giorno dopo! Quindi ci sta che il pittore che deve rinnovare la verniciatura alla piscina decide malauguratamente di programmare il lavoro nella settimana sfortunata e a te ti tocca aspettare senza alcuna garanzia di un termine. – Quindi passata la vacanza dei ragazzi senza piscina a disposizione, li abbiamo portati a Kilifi, nell’ultima calma è un po’ noiosa domenica prima del rientro a scuola, quasi come un premio di consolazione, in un bellissimo resort a picco sul mare dotato di una stupenda piscina panoramica, dove godersi una giornata di sole e sperimentare qualche lezione semi seria di nuoto. Diciamo che prima di chiamare nuoto quegli annaspamenti ci vorranno molte altre domeniche e molti esercizi sulla fiducia del galleggiamento del proprio corpo.
Durante questa domenica è stato bellissimo vedere come i due piccolini, Nassib e Albert fossero più spontanei e ridessero di pancia e di cuore mentre li lanciavamo in acrobatici tuffi nella piscina, altrettanto toccante è stato vedere gli occhi profondi di Amani, mentre immerso fino al mento nell’acqua scrutava l’orizzonte mozzafiato della baia e si interrogava sul suo futuro. Questo ragazzino dagli occhi stupendi ha una storia alle spalle che non vuole raccontare ma che gli si legge nello sguardo, poi quando si sente osservato, distoglie la concentrazione da pensieri oscuri e torna a guardarti imbarazzato ma sorridente. Gli chiedo spesso “a cosa pensi!?” ma lui mi risponde “ a niente…” sorridendo, sapendo che so che non è vero. E’ un discorso questo che abbiamo affrontato diverse volte anche se toccandolo appena. Parlare con questi ragazzi dei loro ricordi e delle loro sofferenze è come uno strusciarsi di due barche che si toccano nello sciabordio delle onde, li colpisci con un colpetto deciso, ti ci avvicini, quasi ti accosti fianco a fianco ma è solo per un attimo, poi si allontanano nuovamente e ti guardano da lontano.
Ma sono sicura che le parole i discorsi arrivano e piano piano si apriranno con noi o con qualcun altro, l’importante è fargli capire che c’è qualcuno che li vuole ascoltare ed accogliere se e quando loro vorranno.
Lasciato da parte il nuoto e le confidenze che non davano i frutti sperati, siamo andati a mangiare al mitico buffet, strabordante di ogni ben di dio, i bambini non sapevano più dove guardarsi e rimanevano imbarazzati fermi con i loro piatti in mano indecisi se avvicinarsi ai cuochi vestiti nelle loro candide divise con i berretti alti sulla testa, gli dovevano parere dei maestosi uccelli appollaiati a  guardia di tavole riccamente imbandite come penne alte e ritte sulla testa.
Amani spingeva delicatamente Nassib e Albert, come al solito come un fratello maggiore, e sorrideva sotto i baffi vedendo i più piccoli con le bocche spalancate e gli occhi strabuzzati di fuori e le mani a mezz’aria indecisi sul da farsi, Paolo li chiamava a sé mentre cercava di mostragli e spiegargli che dovevano servirsi da soli e io da lontano mi gustavo la scena assorta in quella strana danza di passi in avanti ed indietro dei quattro improvvisati ballerini.
A  rompere gli indugi e a far cambiare scenografia alla scena sono intervenuti i cuochi che usciti da dietro le loro postazioni si sono dolcemente avvicinati e piegati sui piccoli aiutandoli con i piatti e nelle loro descrizioni. In un attimo hanno preso anche troppa dimestichezza con il buffet, riempiendosi i piatti di ogni cibo e di quantità di sicuro al di sopra della capacità delle loro pance.
Un’esperienza anche riuscire a stare a tavola composti ed utilizzare tutte le posate presenti, non limitandosi al cucchiaio e alle mani.
Dopo qualche approccio alla forchetta come se fosse un punteruolo e diversi tentativi di brandire il coltello come un’ascia, piano, piano verso la fine del pasto le mani si chiudevano meno violentemente sulle posate, riuscendole ad utilizzarle,credo anche senza crampi. Le facce soddisfatte per l’impresa appena superata e per le pance stracolme erano da fotografia ma mi sembrava irriguardoso tirare fuori la macchina digitale per immortalare le loro facce, erano talmente belle che mi rimarranno sempre impresse.

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Malindi

Cucciolo di un metro e venti centimetri

Malindi 14 aprile 2010 ore 4.25 ora locale (Italia -1 ora per via dell’ora solare)

Dopo un mese di black out sul mio blog e nella mia vita, dopo un primo avviso di scroscio violento di un temporale che annuncia il periodo delle piogge che mi ha risvegliato in questa notte, o meglio da più notti travagliate passate in tristezze e pensieri bui, eccomi nuovamente qui, come spesso mi capita a mettere per iscritto i miei pensieri e le emozioni, quando prendono forma e purezza.
Questo mese è stato per me forte e profondamente formante sotto il profilo umano e psicologico, un allenamento per lo spirito e la forza di carattere. Non so perché mi ero utopisticamente illusa e quindi ingannata, creandomi false aspettative, come spesso ancora mi accade, che qui la mia vita sarebbe cambiata non presentendomi alcun conto.
La prima lezione è stata la morte di Whisky, trovato morto investito da un’auto e vigliaccamente nascosto e portato lontano dal guidatore in un campo e sfilatogli il collare con la medaglietta, se n’è liberato senza preoccuparsi di chiamare il numero che aveva trovato al collo. Dopo pochi giorni l’altro mio gatto “storico” Coco, altro persiano come Whisky, è precipitosamente dimagrito e si è scoperto non avere i reni più funzionanti e in pochi giorni ho dovuto farlo sopprimere. Nel frattempo nubi burocratiche e legali si avvicinavano ai nostri progetti, prospettando spese ulteriori e non previste, rendendo le mie idee e i miei entusiasmi densi, pesanti e lenti.
Ad aggiungersi per non bastare, il nostro trasferimento in una villetta tanto atteso per un mese si è rivelato un problema dietro all’altro; la poca pulizia dei tetti in Makuti ci ha fatto ritrovare con vermi e termiti nel legno che riempivano ogni superficie di fastidiosa e insana polvere delle travi mangiate dagli insetti che ci obbligava a lavare e rilavare qualsiasi cosa e che a nostro dire ci ha riempito di eritemi. La pessima manutenzione inoltre dell’edificio e l’assenza di zanzariere a molte finestre e soprattutto alla porta-cancello del living room realizzato a veranda, permetteva a decine di rospi di diverse dimensioni di entrare all’interno della cucina e dei mobiletti che contenevano cibo e pentole e per quanto poco igienico fosse, questa loro presenza all’inizio non inquietava granché, fino a quando non abbiamo trovato degli altri ospiti e capito a cosa di molto più pericoloso dell’igiene potevano portarci in casa.
Una sera poco prima di coricarci un urlo dal giardino a pochi metri dalla nostra camera ci ha fatto rizzare i capelli e i peli di tutto il corpo, poco prima uno strano abbaiare dei cani della nostra vicina mi aveva già messo in uno strano senso di allarme. Appena sentito l’urlo mi sono precipitata fuori chiamando il nostro ascari e Paolo che si trovava in quel momento dai nostri amici venuti dall’Italia e che avevamo posizionato in un grazioso cottage attiguo al nostro giardino. Non abbiamo capito subito di cosa si trattava, perché la notte, il folto giardino che ci separava nonostante i pochi metri e la lingua Kiswahili per nulla di nostra conoscenza e le ataviche paure emerse in tutti noi, non ci avevano permesso di capire esattamente cosa fosse successo. Così in inglese ho pregato la nostra guardia di accompagnare Paolo e di avvicinarsi al cancello della vicina per chiederle cosa fosse successo; nel frattempo mi sono premunita di chiudere i nostri gatti rimasti e i cani in casa con mia madre e mentre stavo per raggiungerli, Paolo dal basso muro di cinta mi annuncia urlando una frase che avevo letto solo nei libri ed in particolare in quelli della Kuki Gallmann e che speravo, scioccamente ed utopisticamente(appunto mi ripeto nelle infantili aspettative) di non vederla uscire dalle pagine di un racconto: “Gaia, sembra ci sia un serpente enorme, di molti metri che ha attaccato la vicina e il cane è stato morso!”, in un lampo un solo pensiero -dove diavolo ho messo il biglietto da visita?- In una delle nostre tante gite degli anni passati avevo conservato i riferimenti della Snake farm di Watamu, importante centro di raccolta e studio di serpenti e relativo centro antiveleno che dista a qualche decina di chilometri da Malindi, dove, attenta come una scolaretta diligente avevo preso appunti su molti serpenti, sulle loro caratteristiche ed ovviamente sulla loro pericolosità. In un secondo flash mi sono resa conto che avrei fatto prima a telefonare al veterinario dr.Harry che avevo conosciuto per la morte di Coco qualche giorno prima ma anche qui trovare il maledetto biglietto da visita sembrava un’impresa e senza perdermi in stupide e vane ricerche in mezzo a carte vecchie di un fresco trasloco, ricordandomi di aver visto su di una rivista dell’associazione italiana di Malindi un articolo sullo stesso veterinario con il suo numero, che giaceva davanti ai miei occhi sul tavolo in mezzo a mille carte, mi sono messa come una furia aiutata dalla mia memoria visiva e fotografica a sfogliare in pochi istanti le pagine e recuperare così il numero. In altrettanti pochi secondi, riuscendo nel frattempo a parlare al di là del muro con Paolo lo avvisavo di quello che stavo cercando di fare e chiedevo ulteriori informazioni su dimensioni e fattezze del serpente. Il Dr Harry velocissimo nella risposta alle mie affermazioni azzardò la presenza di un pitone e mentre lui mi cercava il numero del Dr Taylor, proprietario appunto della Snake Farm, io, rimanendo incollata nervosamente al telefono mettevo sotto l’enorme fessura della porta che permetteva ai maledetti rospi di entrare ovunque un asciugamano, dato che mi prefiguravo già un pitone nella mia camera da letto.
Il tutto si è svolto in pochi minuti che sembravano ore e secondi al tempo stesso, appena ricevuto il numero chiamavo la Snake farm e mentre mi cambiavo le scarpe correvo verso la vicina, perché come infatti avevo previsto il dottore ha incominciato a farmi domande sul serpente e mentre gli spiegavo la situazione mi sono avvicinata alla villetta e in un gruppetto di persone tra cui riconoscevo l’alta e massiccia figura di Paolo, c’era una donna di colore, piegata come su di una sedia in una tuta grigia, piccola e tremante con gli occhi che gli uscivano dalle orbite e le lacrime che le rigavano le guance, cercava di spiegare che aveva nel giardino il serpente più grande mai visto. Dai gesti che faceva alla guardia con le mani e le braccia sulla dimensione e  lunghezza del serpente mi faceva intendere fosse un esemplare enorme, il Dr.Taylor quindi al quale riferivo la scena e i discorsi mi confermò nuovamente l’ipotesi del pitone. A quel punto mi disse quello che volevo sentire e cioé che sarebbero partiti per Malindi, mi pregava di dargli indicazioni precise sulla località e dopo 40 minuti sarebbero arrivati in nostro soccorso. Chiusa la comunicazione mi avvicinai alla donna era vestita “da casa” con i calzini di spugna ai piedi si era precipitata fuori, sorpresa forse mentre era intenta a guardare la tv o chissà, tremava e singhiozzava e ci diceva che il suo cane, Jasmine, nel difenderla era stata morsicata e che l’altro cane rimaneva in casa a fianco all’altro ferito. Li avevo visti qualche giorno prima attraverso la cancellata, una era un incrocio con un cane tipico di qui “africano” ma di colore bianco e nero e l’altra era una rottweiler piccola di taglia, molto probabilmente incrociata e quindi non imponente ma dal carattere tipico battagliero ed aggressivo, quindi le chiesi di andare a recuperarli con l’aiuto della nostra guardia. Dopo molte insistenze da parte mia e tante parole di coraggio sul fatto che il serpente sicuramente si era andato a nascondere in fondo al giardino, lei e la non molto convinta guardia, entrarono in casa, pochi minuti e la vidi uscire ancora più scioccata e distrutta ripiegata su di sé. “Il mio cane è morto, è morto …” Un secondo brivido sulla mia oramai pelle di cappone me la fece alzare ancora – dio mio se è morto non era un pitone!- “Sei sicura?Che sia morto? Non è sotto shock?Hai visto se respirava?” Niente, scuoteva la testa, gli occhi ancora più fuori dalle orbite e continuava solo a ripetere “il mio cane è morto è morto”. A quel punto come spesso mi accade nei momenti di immobilità apparente del mondo e degli altri, io non riesco a stare ferma, soprattutto se si tratta di un bambino o di un animale e così mi sono girata da Paolo che aveva già capito e con un solo sguardo mi ha seguito, una frase all’Ascari e con torce e mazze siamo entrati in casa. Disordine, sporcizia, accatastamenti vari di qualsiasi cosa, in quell’istante memorizzavo le immagini e le mettevo da parte, solo dopo mi sono resa conto di quel caos ma in quel momento cercavo solo il cane, i cani ed eventualmente un serpente enorme che a quel punto teorizzavo essere molto velenoso, per uccidere un cane di media taglia in poche decine di minuti.
Quasi subito li abbiamo intercettati, prima il meticcio bianco e nero, spaventato come la sua padrona, con le orecchie tese e sparate come vele triangolari se ci fosse stato vento avrebbe potuto prendere il volo, stava a fianco al corpo che pareva esanime dell’altro cane, vedevo solo il posteriore e le zampe, presi coraggio e mi avvicinai ancora e la scena mi ricordava quando, pochi giorni prima avevo dovuto riconoscere il corpo del mio amato gatto Whisky, buttato in mezzo a dei cespugli di bouganville.
Mille flash nella mia memoria e nel mio passato :un ascensore stretto, dei carabinieri altissimi,io piccolissima, una casa vuota e buia, poi flash e mia madre che piange disperata e poi un altro flash, mio zio che mi dice che mio padre non torna più, un altro flash una bara, la sua bara sul ciglio della fossa aperta e io che intravedo le sue gambe, i suoi piedi.
Nella pericolosità del momento e di rimanere lì la mia mente gioca strani scherzi, scuoto la testa, schiarisco la vista strizzando gli occhi, torno al presente e vedo un lieve movimento nel costato, scosto il panno della poltrona sotto la quale era accasciata e un muso spunta, mostrandomi un ringhio,per paura, per dolore e per sopravvivenza, “Ok, tesoro, sei viva, ora ti mando la tua padrona”, dietrofront immediato di tutte e tre e con gran sollievo della guardia che non era a suo agio in una stanza piena e soprattutto di due cani e di cose accatastate che nascondevano un probabile serpente. “Il tuo cane è vivo, è sotto shock, fila dentro a recuperarlo, lui e l’altro. Fatti accompagnare dalla guardia ma vai a recuperarlo dobbiamo vedere cosa c’ha!”, la spingo a quel punto, la strattono dolcemente ma fermamente, le sorrido e le dico che ce la può fare, non c’è pericolo. Dopo interminabili minuti escono, il cane zoppica vistosamente, con mio raccapriccio noto che la zampa è leggermente più gonfia, capisco che è velenoso, non aspetto neanche il tempo che lo sguardo scivoli via dalla scena per ragionare che già il mio dito stava premendo il tasto dell’ultima chiamata: “ Dr.Taylor sono di nuovo io, il serpente deve essere velenoso, il cane ha una zampa gonfia e credo si gonfierà ancora ma che diavolo di serpente può avere dimensioni da pitone enorme ma essere velenoso?”, “Puffeder…”, vuoto nella memoria e frustrazione per non capire bene cosa stia dicendo, non avere la padronanza della lingua in questi momenti ti toglie forza, chissà cosa mi sta dicendo, non capisco, lui lo intende dal mio silenzio e mi spiega il tipo di serpente e in un italiano stentato mi ripete: “Puffeder, vipera soffiante…”. Porca miseria, me la ricordo, bestia per me orribile e per Paolo affascinante prima di attaccare emette un sibilo, un soffio profondo per me angosciante. Arriva a diametri e dimensioni importanti ed ovviamente è velenosa, molto velenosa. Da quel istante al mio ripetere ad alta voce il nome in inglese e in italiano, la già tesa atmosfera, se possibile lo é diventata ancora di più, minuti frenetici sono passati per organizzare l’arrivo del veterinario alla clinica mentre Paolo ed io andavamo ad aspettare sulla strada l’arrivo del pick up di quelli della Snake Farm. Mentre aspettavamo lontano dalla casa, purtroppo i guardiani, insieme al compagno della donna nel frattempo accorso, hanno cercato, stanato ed ucciso un serpente, dico purtroppo, perché uccidere un serpente comporta danni che uno non comprende al momento, perché si pensa di togliere un problema ma invece significa perdere veleno e quindi antidoto preziosissimo. Bastava aspettare e quelli della Snake farm lo avrebbero catturato. Inoltre il serpente preso, era sì, una vipera soffiante ma di dimensioni notevolmente inferiori, perché era “solo” un cucciolo di un metro e venti centimetri circa, mentre quello descritto dalla donna doveva essere o la madre o il padre e con tutto il trambusto e la caccia nei cespugli del giardino l’avranno sicuramente messa in fuga. Perso un esemplare importante per studio e per antidoto e messo in fuga vicino ad altre ville, cacciare un serpente non è togliere un problema ma spostarlo solo di qualche metro o di qualche giorno.
Ucciderlo, è ridurre la quantità di siero che può aiutare molte vite di tante persone.
Oramai è andata, nel frattempo il pensiero va al cane, salvare intanto Jasmine e così caricata sul pick up l’abbiamo portata dal veterinario, la donna era troppo sotto shock per ragionare velocemente e così ci siamo fatti scortare dai cacciatori di serpenti che erano abbattuti e affranti per essere corsi senza poter salvare il serpente e nel tragitto intanto dai loro sguardi attenti e preparati avevano compreso la scena in pochi minuti e mi stavano dando un resoconto agghiacciante. Il giardino era incolto e sporco, oggetti, cose vecchie e legni erano accatastati ovunque, topi e ratti erano stati visti dalla donna interrogata dai cacciatori e i molti rospi presenti avevano creato un habitat ideale e confortevole per i serpenti, per le vipere soffianti e mi spiegavano con calma che dove si avvista un cucciolo ed un adulto di vipera soffiante di solito ce ne sono molti altri. Al ritorno, dopo un ‘ora dalla clinica, senza sapere se il cane ce l’avrebbe fatta, pensieri cupi si addensavano nella mia mente.
Erano giorni che non facevo uscire i gatti dalla mia camera e non ero tranquilla a tenere di notte i cani nel living-room aperto su ogni lato, senza sapere il perché. Paolo nelle mie ansie ricorrenti e per quello che era appena successo coi gatti non insisteva fortunatamente nel smontare ironicamente le mie apprensioni, forse perché è di animo delicato e capisce i miei dolori o perché ha imparato a conoscere il mio sesto senso e spesso ci confida più lui di me anche se non me lo dice mai. Guardandomi col suo sguardo calmo e sorpreso come spesso ha in momenti di emergenza mi dice ”lo sentivi che c’era qualcosa che non andava, hai visto? Di nuovo il tuo sesto senso.”
-E’ una qualità, Gaia, è una cosa positiva non è qualcosa di cui aver paura, è il tuo campanello d’allarme che devi seguire e benedire-me lo ripeto ogni volta che mi spavento quando scopro che una sensazione, un presentimento al quale non vorrei dar ragione, invece si rivelano giusti.
Da quella notte siamo rimasti barricati in camera, anche con i cani a dormire sotto il letto con asciugamani a mò di barriera e da quella notte molti serpenti sono stati trovati e molti ranocchi e rospi sono stati cacciati dalle camere e dalla cucina. Dopo pochi giorni dai serpenti, il ritrovamento di uno scorpione per l’esattezza una scolopendra con la quale avevo avuto un incontro ravvicinato e doloroso l’anno scorso, dopo la fuga dei nostri amici da quel cottage in un’altra struttura, senza considerare vermi e termiti e rospi, tutti questi fatti ci hanno convinto ad imporci con la padrona di casa e di decidere di andarcene nonostante questa provasse a convincerci che tagliando un po’ le piante della villetta vicina, sempre di sua proprietà e dalla quale appunto arrivavano i serpenti, non avremmo avuto problemi.
La vita è mia e non ci sto a rischiare, soprattutto se devo lasciarla in mano alla cattiva gestione di qualcun altro.
Quindi dopo solo pochi giorni in quella villetta e molti problemi, nuova ricerca di casa ed ennesimo trasloco, siamo a quota 4 in due mesi, non male per una che odiava i traslochi.
Ora, nonostante tutte le ragioni per la pericolosità della situazione, la padrona di casa sta provando a richiederci due mesi per mancato preavviso e non sta pagando le persone che erano alle sue dipendenze ma che hanno lavorato per noi in quei pochi giorni e per le quali, avrebbe dovuto usare la quota sostanziosa dell’affitto rimasta, per saldare appunto le piccole spese relative alle ore della donna di servizio e della guardia, tenendosi nonostante non ne avesse diritto il cospicuo resto che avevo deciso di donarle.
Quindi ora mi devo rivolgere ad un avvocato e dopo i problemi avuti con e per gli animali eccomi a dover risolvere le beghe legali e burocratiche con le persone che cercano sempre di approfittare di chiunque e soprattutto di persone come me e Paolo che siamo sempre gentili, accondiscendenti e ben pensanti. Ma questa non la passa liscia, ora, oltre a richiederle indietro i soldi che volevo regalarle, le chiedo i danni e faccio verificare dagli uffici competenti che le persone che lavorano per lei e che manda nelle villette in affitto facendosele ri-pagare profumatamente, siano come dice lei, davvero in regola.
Pronti via si ricomincia con la lotta.
Anche per entrare in questa nuova casa, nella quale mi trovo molto bene e spero di starci per i prossimi mesi, stiamo lottando contro un avvocato che dire sleale é dire poco.
Oltre a scoprire che la parcella per la compilazione del contratto d’affitto e della relativa registrazione spetta a noi e non al proprietario, nonostante abbia scelto lui l’avvocato, perché consigliato da italiani (che qui non rappresenta il marchio Doc o Dop ma Dcf: “di certa fregatura”) cosa comunque che devo in ogni caso approfondire, il –così detto professionista- ha avuto il coraggio di presentarci una parcella di un importo pari a € 1.111, sì mille e cento undici euro per compilare un contratto standard d’affitto per un anno, dove credo costi ovunque nel mondo, qui in Kenya e anche nella nostra strana Italia, in media 60€.
Quindi anche con questo caro esemplare di avvocato mi dovrò far viva con una lettera che gli spieghi un po’ dove deve ricollocarsi nel mondo.
Mi vien da dire che i serpenti da abbattere siano di altre razze, dimensioni e fattezze e soprattutto di totale inutilità, dato che da queste bestie velenose non esiste antidoto ma solo la morte, la loro. Mors tua vita mea. Eh, sì cari, non hanno capito ancora con chi hanno a che fare. Lo scopriranno presto.

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